Un giorno il cavaliere bianco decise di sfidare a duello il cavaliere nero… Suppongo che molti sappiano come va a finire la barzelletta, per chi non la conoscesse suggerisco di guardare il video di Gigi Proietti che la racconta.
Quanti cavalieri bianchi sono stati reclutati dallo Stato sedicente imprenditore o tutore delle fortune produttive, economiche e finanziarie della Nazione? Un esempio noto è la famosa cordata che rilevò Alitalia, due o tre bad company fa, prima promessa da Prodi e poi sottratta da Berlusconi ai francesi di Air France. Per tenere la ex compagnia di bandiera in mani italiane furono chiamati a raccolta i cosiddetti “capitani coraggiosi” del capitalismo nostrano, guidati da Roberto Colaninno e Corrado Passera. Tra essi, naturalmente i Benetton, che dall’allora ministro delle Infrastrutture Antonio Di Pietro, avevano già ottenuto una discreta proroga (fino al 2033) della concessione autostradale con relativa secretazione del famoso allegato 5. Il Tesoro, che ancora deteneva una partecipazione maggioritaria in Alitalia –l’unica compagnia aerea ancora a controllo statale d’Europa– voleva da tempo lasciare il passo, ma lo Stato prima pretese di vendere un brocco al prezzo di Varenne (Pierluigi Bersani fu il ministro che curò il dossier), poi non seppe tener fede all’accordo con Air France-KLM, essendo nel frattempo cambiato il vento e giunto Berlusconi a difendere “l’italianità” di Alitalia. Lì giunse una dichiarazione tra le più sincere del CEO Air France Spinetta: “Per Alitalia ci vuole l’esorcista”.
Ma al di là del caso Alitalia (psichiatrico, verrebbe da dire), praticamente l’intero percorso del “grande” capitalismo italiano è interconnesso con quello dello Stato, che in tutta la sua storia unitaria non ha mai abbandonato il suo ruolo “regnante”, esercitandolo con la regola del do ut des ed in modo opaco. Ne è conseguenza e, insieme, prova, il capitalismo di relazione che ne è derivato, l’unico formato di capitalismo con cui i governi italiani (per uno Stato via via imprenditore, regolatore, produttore, persuasore) hanno mostrato di poter dialogare. Il “cavaliere bianco”, l’amico a cui posso chiedere un aiutino, la banca che certo non mi dirà di no, i frequentatori di salotti sempre pronti a valutare salvataggi, i finanziatori di operazioni in perdita: questi sono i germogli che lo Stato italiano si è a lungo allevato e tutt’ora predilige.
Solo che, grosso modo 20 anni fa –evento simbolo l’ingresso della Cina nel WTO- il mondo è cambiato, è diventato più piccolo, i confini nazionali hanno perso significato, il potere degli Stati sui fenomeni della cosiddetta globalizzazione è diminuito e le evoluzioni e le involuzioni nelle diverse aree del pianeta si misurano con una nuova scala.
Ma in Italia restano alte e fitte le barriere all’impresa, tanto quella autoctona tanto, anche di più, quella che vorrebbe e potrebbe investire nel nostro Paese. Paghiamo un’ inadeguatezza culturale non solo verso l’impresa, ma anche verso l’evoluzione della natura dell’uomo e delle società. La paghiamo con crescita stagnante da decenni, con centinaia di migliaia di giovani qualificati che fuggono all’estero, con l’ignoranza che progredisce, con una curva demografica che ci ridurrà presto ad una specie di grande ospizio, sovraindebitato e orfano delle forze vitali.
E’ il metodo del “cavaliere bianco” che ci trascina a fondo, evocato a fasi alterne con il mantra “Intervenga lo Stato”. A questo si aggiunge la ridicola caricatura sovranista di un Paese che può fare a meno dell’integrazione, dell’Euro, dell’Unione Europea, della NATO e di solide relazioni internazionali. Poi succede che i giovani partono, che i capitali internazionali preferiscono altri luoghi dove investire, che le imprese – potendo – vanno via. Per interi territori desertificati dalle imprese le uniche soluzioni per tanti sono impieghi pubblici o redditi assistiti di uno Stato che prima o poi finirà la benzina. E allora si capirà meglio il finale che racconta la barzelletta: “Qual è la morale? È che al cavaliere nero non gli devi rompere er cazzo!”
2 comments
Articolo molto bello e che condivido totalmente. Mi fa ricordare Ernesto Rossi ne “I PADRONI DEL VAPORE”, e quanto affermava della poilitica industriale italiana nel ventennio, “socializzare le perdite e privatizzare i profitti”
Bravo Zunino, sacrosante parole!