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Politica interna

Il Leviatano, lo stato di natura e i vigili del Comune di Roma

LeviatanoNeanche a farlo apposta, a pochi giorni dall’emanazione del decreto attuativo del Jobs Act e dalla contestuale accesa polemica relativa alla mancata estensione delle norme ivi contenute ai dipendenti della pubblica amministrazione, i vigili del Comune di Roma hanno gettato benzina sul fuoco ammalandosi, quasi tutti assieme, la notte di Capodanno.

Non vorrei entrare nel merito della questione, già ampiamente dibattuta e declinata, dell’estensibilità delle norme del Jobs Act ai lavoratori del settore pubblico o nella parallela discussione circa la sussistenza o meno della necessità di creare leggi che permettano di licenziare questi ultimi qualora se ne ravvisi l’opportunità.

Vorrei soffermarmi, invece, su un dato empirico innegabile, sotteso alle notizie sopra citate: a prescindere dall’esistenza o meno di norme differenziate a seconda del settore di appartenenza, esiste, di fatto, una disparità di trattamento tra pubblici funzionari e lavoratori “privati”.

A ben vedere, tale disparità è soltanto il riflesso di un problema più ampio ed esteso che costituisce altresì un tratto caratteristico del nostro Paese: l’arbitraria supremazia dello Stato e della pubblica amministrazione sui cittadini.

In nome di questa supremazia, ci sentiamo dire – e a ragione – che lo Stato è troppo indebitato e non può permettersi ulteriori sprechi e, tuttavia, dobbiamo accettare che venga indetto un concorso per la nomina di 400 allievi del corpo forestale dello Stato e che nella legge di stabilità vengano stanziati € 140.000.000,00, in favore dei forestali della Calabria, che – si badi bene – conta all’attivo la bellezza di 10.500 unità – più del doppio dei ranger impiegati in tutto il Canada per svolgere le medesime funzioni.

In nome di questa supremazia, ci sentiamo ripetere che non ci sono più soldi nelle casse dell’erario e che, tuttavia, non si può procedere immediatamente alla liquidazione totale delle società partecipate dallo Stato mantenute in vita forzosamente, e a nostre spese – Cottarelli aveva stimato che, di queste società, 1.430 su 5.268 non rendono nulla ed, anzi sono in perdita. Nel frattempo, Confcommercio denuncia che nei primi dieci mesi del 2014 sono -tra fallimenti e liquidazioni – sono sparite in media 260 imprese al giorno.

In nome di questa supremazia, lo Stato, faticando a trovare manovre di spazio per abbattere con tenacia la spesa pubblica incontrollata, continua ad opprimere i suoi cittadini e le sue imprese con una pressione fiscale da guinness dei primati – in un rapporto dell’OCSE dello scorso dicembre siamo posizionati al quinto posto.

 

I dati sopra riportati rappresentano soltanto alcune manifestazioni dell’assurda condizione di sostanziale sudditanza alla quale siamo sottoposti da parte del potere pubblico.

Tale smisurata egemonia dello Stato, d’altra parte,  è il frutto di un brutto malinteso all’origine del nostro ‘contratto sociale‘: mi riferisco alla erronea credenza che senza lo Stato – in quella condizione virtuale definita dai teorici come ‘stato di natura‘ – l’individuo sia privo di qualsivoglia diritto e che soltanto sottomettendosi l’autorità dello Stato esso possa vivere in armonia nel contesto di una società civile.

Una siffatta premessa, posta da teorici come Thomas Hobbes a fondamento dell’assolutismo dello Stato c.d. Leviatano, giustifica le differenze ed i privilegi che caratterizzano il rapporto tra consociati, da un lato, e pubblica amministrazione, dall’altra, sbilanciato a favore di quest’ultima: infatti, secondo Hobbes, non c’è diritto, né morale, né libertà al di fuori dello Stato.

Se invece preferiamo ritenere che l’individuo, in quanto dotato di ragione, sia nato libero ed eguale ai suoi simili e dotato di diritti naturali inalienabili, dobbiamo concludere che il contratto sociale sia stato stipulato al solo scopo di consentire allo Stato di garantire tale libertà e tali diritti. John Locke, importante teorico dello Stato moderno, nel suo Secondo Trattato sul Governo del 1690 sposò questa concezione, ritenendo che “il contratto sociale e, per suo tramite, la nascita della società ‘politica e civile’ servono agli uomini per dare una protezione più sicura e un fondamento più certo alla libertà di ognuno. Ma se così è, la nascita della società politica non può in alcun modo coincidere con la sottomissione a un potere statale sovrastante. Gli uomini, nel passaggio, conservano i diritti che avevano acquisito e di cui godevano nello stato di natura“.

Nel 2015, e dunque 325 anni dopo la pubblicazione dell’opera di Locke, pare che, almeno in Italia, abbia avuto ragione Hobbes e che il nostro contratto sociale sia stato stipulato in modo da conferire il maggior potere ed arbitrio possibile dello Stato a tutela – leggasi ‘a scapito‘ – dei cittadini – leggasi ‘sudditi‘.

Infatti, se avesse avuto ragione Locke, lo Stato non sarebbe nient’altro che un’organizzazione volta a regolare – con il minor grado di ingerenza possibile – la vita dei suoi consociati, garantendo ad essi le libertà ed i diritti di cui sono titolari in quanto individui eguali fra loro dotati di ragione. Se avesse avuto ragione Locke, nulla avrebbe potuto giustificare privilegi e diseguaglianze di status: i lavoratori pubblici sarebbero licenziabili al pari di quelli privati, le società pubbliche in perdita sarebbero liquidate al pari di quelle private, gli sprechi di denaro pubblico sarebbero stati limitati per non opprimere le tasche dei privati, e così via.

Finché non si provvederà a ridurre il perimetro di azione del potere pubblico, d’altronde, non potremo correggere le premesse del nostro contratto sociale: in altri termini, finché lo Stato sarà così ingombrante, sarà sempre un Leviatano.

1 comment

Franco Puglia 06/01/2015 at 10:51

Sposo ogni parola, virgole comprese.

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