Giornalismo

Giorgio Bocca, il giornalismo come missione civile

In questi giorni ricorre il centenario dalla nascita di uno dei più grandi giornalisti del 900: Giorgio Bocca. Considerato, alla stregua di altri eminenti nomi come Montanelli e Biagi, uno dei pilastri del giornalismo italiano; dei padri nobili di questa professione.

Classe 1920, cuneese, ufficiale durante il regime e successivamente partigiano sotto l’egida delle brigate di Giustizia e Libertà, di cui divenne in breve tempo comandante di divisione. Non gradiva si rivangasse il suo passato di fascista incallito, ampiamente squadernato nei rispettivi libri di Pierluigi Battista e Mirella Serri e – come ha scritto Antonio Stella sul Corriere – gli verrà rinfacciato a vita.

Gli esordi alla Gazzetta del popolo, poi al Giorno fondato da Mattei e diretto da Italo Petra; infine, nel 76, seguirà Scalfari nella straordinaria avventura editoriale di Repubblica (vi rimarrà fino alla morte nel 2011, con un ruolo dapprima di cronista e poi di commentatore politico e preclaro editorialista).

La scrittura era il suo inconfondibile marchio di fabbrica. Il linguaggio immaginifico. Una prosa torrenziale, incisiva; una scrittura senza fronzoli, meno sberluccicante rispetto a quella di un Montanelli ma quantunque nitida ed elegante. I suoi incipit folgoranti, i reportage dell’Italia del boom economico (poi confluiti nel libro Il provinciale) sono rimasti impressi nella memoria di tutti: “fare soldi, per fare soldi, per fare soldi, se esistono altre prospettive, chiedo scusa, non ne ho viste”, “di milionari a battaglioni, di librerie neanche una”; espressioni oggi scimmiottate da tutti come “garantisti pelosi”, persino il termine “gnocca” per indicare il gentil sesso, sono state coniate da lui.

Bocca era un battitore libero, non apparteneva ad alcuna conventicola,  milieu da borghese progressista, politicamente di tendenza azionista (prima dell’avvento di Craxi votò il partito socialista e repubblicano). Non era dunque un simpatizzante del partito comunista (basti pensare all’autobiografia che scrisse su Togliatti e alle reazioni che suscitò nella base del partito), ma nemmeno un anticomunista alla maniera di Montanelli.

È stato un indefesso antiberlusconiano; lo ripugnava l’Italietta amorale berlusconianana, benché, nei primi anni 90, per un breve lasso di tempo, avesse lavorato alle sue dipendenze e seguitato a pubblicare i suoi libri con la Mondadori fino al 2002 (per poi passare ad Einaudi e poi Feltrinelli). La prima intervista al Cavaliere apparsa su Repubblica, nel lontano 79, porta la sua firma.

I suoi articoli erano intrisi di passione civile, di intransigenza morale; con sguardo disincantato ma lucido ed anticonformista, ha raccontato come nessun altro ha saputo fare le nequizie, le brutture, i vizi degli Italiani, messo in mora un certo tipo di capitalismo straccione, le tante camarille affaristiche o mafiose che impestano il Paese. Si considerava un anti – italiano (così si intitolava la sua rubrica su L’Espresso), straniero in patria per dirla con Scalfari. Ed effettivamente era una voce fuori dal coro, severo censore, ma capace di prese di posizioni spiazzanti. Come quando – tra i pochi giornalisti a farlo – prese le difese di Enzo Tortora, da accuse infamanti, in uno dei casi più emblematici di mala giustizia o allorché fece un’importante apertura di credito nei confronti dell’arrembante lega Nord di Bossi nei primi anni 90 in un pezzo intitolato “cari amici snob, non capite la Lega”.

Carismatico, influente (i suoi articoli erano tra i più letti nel panorama giornalistico), Giorgio Bocca aveva un carattere ombroso, ruvido, scostante a tratti arcigno – Montanelli sosteneva però che chi ha carattere ha per forza di cose anche un pessimo carattere – non aveva tema di dire ciò che pensava. Anche a rischio di clamorose cantonate. Come sulle brigate rosse (di cui negò la matrice rossa, salvo poi fare autocritica). La sua franchezza rasentava sovente la brutalità, i modi erano spicci talvolta rudi, sprezzanti, la partigianeria non dissimulata. Perciò, in vita, fu ammirato da tanti a sinistra, ed altrettanto inviso a quelli di destra. Il massimo riconoscimento, disse, era stato farsi dire “dal missino mefistofelico La Russa: “a me questo Bocca sta sulle palle”.

La rivalità con un altro grande cronista di razza come Giampaolo Pansa è stata una delle pagine maggiormente pregnanti del giornalismo italiano: come non rammentare le paginate in cui, intervistati e moderati da Scalfari, discettavano di terrorismo, resistenza, attualità politica. In anni più recenti i due, a margine dei libri revisionisti di Pansa, si sono scambiati improperi di inusitata violenza. Non uno spettacolo edificante.

In occasione dei suoi 80 anni scrisse su Repubblica: “Non sono pentito di avere scelto questo mestiere perché nei settant’anni in cui l’ho conosciuto mi è parso molto migliore della sua fama. (…) Certo sono stato nei giornali anche quello che si chiama un rompicoglioni, ma ho avuto direttori pazientissimi, specie Scalfari. (…)
Tutta la mia vita di giornalista e di scrittore ha avuto una sola ragione d’essere: dire quel che penso senza obbedire ai conformismi”. Quasi un epitaffio.

Chissà cosa direbbe – fosse ancora tra di noi – di questa Italia derelitta, della destra populista e sovranista incarnata da Salvini e Meloni – probabilmente gli sarebbe piaciuta ancor meno, per usare un eufemismo, di quella Berlusconiana – dei grillini e la loro insipienza, di Renzi o del Covid… Manca immensamente.

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