In uno scritto di Saramago, intitolato “le intermittenze della morte”, l’eternità sembra manifestarsi in un paese senza nome: ivi nessuno riesce più a morire. Da un giorno all’altro, senza alcuna motivazione, gli abitanti dell’ignoto paese scoprono che l’incubo del trapasso non potrà più tormentare le loro coscienze.
Nonostante un simile incipit metafisico, Saramago non intende riflettere sulla precarietà dell’esistenza o su quel vetusto desiderio chiamato “immortalità”, da sempre blandito dall’uomo. Nulla di tutto ciò. Piuttosto lo scrittore portoghese si sofferma sulle reazioni prosaiche, e talvolta grottesche, della società civile, come ad esempio l’enorme perdita economica delle compagnie assicurative: da quando la morte ha dismesso il suo tetro ufficio le polizze sulla vita hanno perso la loro ragion d’essere. Non solo: che dire delle pompe funebri? E le case di riposo? Come potrebbero evitare di riempirsi quando il sonno eterno tarda a sopraggiungere? E così un libro sull’assenza della morte si trasforma in una satira sull’eccesso di vita. Tuttavia, sulla scia di Saramago, potrebbe stupirci sapere che una società può continuare a invecchiare senza che la morte sospenda il suo corso.
Difatti esiste un’altro tipo di senescenza, più subdola e nefasta, che seguendo una certa pubblicistica chiameremo “gerontocrazia”. Il termine nasce dalla composizione di due parole greche: l’aggettivo «γέρος» (geros), che vuol dire “vecchio”, e il sostantivo «κράτος», che di norma significa “forza” ma che qui ha l’accezione di “dominio”. La gerontocrazia è, letteralmente, la detenzione del potere da parte degli anziani.
Per apprezzare un esempio tangibile di gerontocrazia non è necessario consultare la letteratura alla ricerca di paesi senza nome. È sufficiente dimorare in Italia. Chiariamo sin da subito un fatto banale: essere anziani non è un crimine né una colpa. Nessuno sussurra all’orecchio della gente di sbarazzarsi dei propri padri o dei propri nonni, in una sorta di modest proposal del 21esimo secolo. L’intento è piuttosto quello di diagnosticare un morbo sociale dalle profonde radici culturali, un atteggiamento corrotto, deviato che accompagna gli italiani nel loro decennale declino socio-economico.
Prima di scadere in analisi della gerontocrazia tanto astratte quanto retoriche, soffermiamoci su ciò che essa non è, o non è soltanto. La gerontocrazia non consiste (solo) nel nostro record di paese europeo con maggior numero di ultracentenari (a livello mondiale siamo secondi solo al Giappone), un fatto che di per sé può risultare anche positivo perché sintomo di longevità.
La gerontocrazia non si deduce (soltanto) dalla folle spesa pensionistica che da tempi immemori connota il Bel paese. I dati OCSE del 2015 e i dati Eurostat del 2016 sembrano convergere su un punto: la spesa pensionistica italiana in rapporto al Pil si aggira tra il 16.1% e il 16.2%, quasi 4 punti percentuali in più della media dei paesi UE (12.6%) e 3 rispetto all’area euro (13.3%), sempre secondo Eurostat. Forse daremmo un’idea più icastica della cifra dicendo che si tratta di circa 270 miliardi di euro. Si aggiunga che in un’elaborazione di ImpresaLavoro sui dati OCSE emerge un ulteriore aspetto: in Italia il 31.9% della spesa pubblica totale è destinato solamente alle pensioni. Un risultato che ci proietta in vetta alla classifica dei paesi OCSE per quella voce di spesa; persino la Grecia, con il suo 31.5%, deve ‘accontentarsi’ di un secondo posto.
A tal proposito, se per caso qualcuno se lo stesse chiedendo, il signor Tridico ha torto: non è vero che OCSE ed Eurostat, per gli altri paesi, non distinguono le spese previdenziali in senso stretto dalle prestazioni assistenziali (assegni per invalidi, indennità di disoccupazione, etc.). Nel caso di Eurostat, ad esempio, basterebbe consultare la pagina di spiegazione delle statistiche, laddove vengono presentati i criteri operativi del sistema ESSPROS (European system of integrated social protection statistics).
La gerontocrazia, di nuovo, non si traduce (solo) nell’esodo pluridecennale dei giovani italiani. In un report rilasciato il 13 dicembre 2018 l’Istat fa sapere che circa 244mila over 25 hanno lasciato il Bel paese tra il 2013 e il 2018. Di questi il 64% possiede un titolo di studio medio-alto, ovvero un diploma o una laurea. Il discorso sulle cause delle migrazioni giovanili è molto complesso. Qui accontentiamoci di notare il rovinoso andamento italiano, tipico di un paese che da diverse decadi ha ormai deciso di cacciare scientemente i propri talenti.
La gerontocrazia, infine, non risiede (soltanto) nella crisi di natalità; crisi «paragonabile soltanto agli anni della prima guerra mondiale e all’epidemia di influenza spagnola», come spiegato brutalmente dal presidente dell’Istat Blangiardo. Con un saldo naturale annuale (differenza tra nascite e decessi) di -193mila unità e un calo costante delle nascite (nel 2018, dati Istat, sono nati 10mila bambini in meno rispetto all’anno precedente), anche l’Italia prova ad attirare l’eterno.
Non focalizzeremo la gerontocrazia nemmeno dopo aver preso assieme quei singoli fattori, perché essa è la mentalità malata che li sottende tutti, è l’impianto culturale pervertito che ormai si è sedimentato nel genoma italiano. L’Italia è un paese di vecchi, ma nel senso ‘cultural-mentale’ del termine.
In una lunga intervista rilasciata a Linkiesta nel 2012, il politologo francese Marc Lazar dichiarava, a proposito dell’Italia, di trovare «assolutamente straordinario» il numero di talenti che vi sono, perché «malgrado tutti gli ostacoli presenti qui, sono ancora più decisi a fare qualcosa, a superare le barriere del mondo dell’amministrazione pubblica, del mondo delle imprese e quello più terribile rappresentato dalla gerontocrazia. […] Penso che bisognerà arrivare ad uno scontro generazionale: i più anziani qui non vogliono lasciare il posto ai giovani e questo accade sia nel potere politico che nel potere economico o culturale o accademico, ma ancora di più in politica…».
A tal proposito si pensi allo spazio politico per eccellenza: il parlamento. Ivi lo iato fra senescenza anagrafica e senescenza culturale è ancor più marcato perché la gerontocrazia non va di pari passo con l’avanzamento dell’età: si può essere culturalmente ‘vecchi’ pur essendo giovani e viceversa.
Da un calcolo di Openpolis risulta infatti che entrambi i rami del parlamento siano entrati in un trend di ‘ringiovanimento’. Nell’attuale legislatura i parlamentari della Camera hanno un’età media di 44,33 anni, mentre i senatori vanno poco oltre i 52. Di fronte a questi dati non possiamo certo paragonare Montecitorio e Palazzo Madama ad ospizi per anziani.
Eppure, paradossalmente, la XVIII legislatura è l’emblema più fulgido della vecchia politica: condoni, spesa pubblica forsennata, tendenza al sussidio facile… e l’elenco potrebbe continuare ad libitum; il tutto condito da una buona dose di retorica rossobruna e anti-europea. Tant’è vero che Movimento 5 stelle e Lega sono difformi sotto un aspetto identitario, ma sono assolutamente interscambiabili nella loro Weltanschauung statalista.
Allo stesso tempo la gerontocrazia italiana vive di auto-induzioni immaginarie: da un punto di vista fiscale e previdenziale siamo uno dei paesi più socialisti del mondo, ma la narrazione preponderante descrive un’Italia dominata (saremmo curiosi di sapere dove e quando) dal fantomatico mostro chiamato “neoliberismo”; parola che come tutte le etichette semanticamente inflazionate non significa più nulla, posto che abbia mai voluto dire qualcosa.
Si aggiunga l’ormai sedimentato fascino italiano per il ‘piccolo mondo antico’: nel bene o nel male, e soprattutto nel male, tutto ciò che appartiene al passato è per definizione sinonimo di un paradiso perduto. È quella che Nietzsche avrebbe definito “storia antiquaria”: quel tipo di atteggiamento che considera il passato un vezzo da esibire e un mezzo per svalutare ogni futura novità.
Non è possibile misurare in termini quantitativi l’avversione di un paese all’innovazione, ma basterebbe pensare alla ritrosia con cui viene accolto, nel dibattito italiano, un tema del calibro del 5G. La gerontocrazia aborre la novità.
Inoltre la fascinazione per il passato esercita nell’elettore italiano una forma particolare di pensiero magico: ad esempio nell’analisi dei problemi economici strutturali, si tende a individuare la causa dei nostri mali in un evento particolare (l’entrata nell’Euro, il divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro, etc.), come se la scarsa produttività, per dirne una, fosse dovuta alla moneta unica e non a 30 anni di politche inadeguate.
Il pensiero magico sta nella pretesa di ricondurre problemi complessi ad una causa semplice, piuttosto che pensarli nella loro stratificata evoluzione storica. L’evento particolare distrugge la pace edenica del passato e ci induce a credere che le nostre debolezze siano sempre il frutto di un agente esterno: ecco la funzione consolatoria della fascinazione.
E ancora: potremmo citare quella mastodontica sottocultura marxista, quel socialismo ad usum infantis, di cui la gerontocrazia italiana è imbevuta, che utilizza la retorica lacrimevole della povertà e del lavoro per imporre i propri dogmi; come le lagnanze antistoriche verso il libero mercato.
Insomma potremmo scriverne a lungo, ma dinanzi a una gerontocrazia così radicata non ci resta che riportare alla mente una frase geniale di Leo Longanesi, allorché il giornalista romagnolo, in “Parliamo dell’elefante”, scriveva: «Sono un conservatore in un paese in cui non c’è niente da conservare». Il paese in questione era l’Italia.
2 comments
Half a life, Star Trek TNG.
vedo che non rispondete ai commenti, ergo MORTE A VOI E AI VOSTRI PARENTI SPECIE INFANTI ;)