Quello del gender pay gap è un tema che genera sempre discussioni animate: chi lo vede come la più grande prova della discriminazione verso il genere femminile e chi sostiene che non esista affatto. È vero che tutti ne parlano, ma sicuramente la maggior parte di quelli che lo fanno non approfondiscono il tema in modo accurato. Questo perché spesso non si vuole veramente comprendere la dinamica per cui si genera una diseguaglianza, ma si vuole semplicemente strumentalizzare il dato per portare avanti un’agenda politica in modo ideologico.
Quello che intendo fare con questo articolo è analizzare il problema in modo logico e senza preconcetti, guardando ai dati e specificando quando delle semplici idee personali avranno impatto sulla mia argomentazione.
Partiamo da questo: il gender pay gap esiste? Assolutamente sì, sia in valori assoluti sia a parità di mansione. Siccome nel gender pay gap assoluto viene ad impattare una variabile estremamente importante costituita dai differenti lavori che uomini e donne svolgono e su cui ci sarebbe bisogno di un articolo a parte, oggi voglio parlare del gender pay gap a parità di mansione. Ci sono tre grandi cause che generano questo gap: differenze di produttività, ovvero un fattore che possiamo chiamare discriminazione logicamente motivata (il che non significa eticamente corretta, quindi vi prego di leggere l’articolo per comprendere la ragione di questo nome) e un fattore che chiameremo discriminazione non logicamente motivata.
Come vedremo, la discriminazione logica è strettamente correlata alla differenza di produttività tra uomini e donne, ed è quindi da quest’ultimo fattore che bisogna partire: voglio io sostenere che le donne siano meno produttive degli uomini? Assolutamente no, anzi le donne senza figli sono generalmente più competitive degli uomini senza figli. Le cose però cambiano una volta che una donna resta incinta, poiché mediamente tende a volere orari part time o ridotti, riduce di gran lunga il numero di ore di straordinario e porta in generale ad un calo della produttività. E di conseguenza del proprio salario. Gli uomini invece tendono a lavorare di più una volta padri, forse proprio per compensare le mancate retribuzioni delle donne che invece tendono a spendere più tempo con i figli.
Ma quanto impatta questa variabile? Secondo lo studio di Yana Gallen, la differenza di produttività dovuta ad una gravidanza spiega il 66% del gender pay gap a parità di mansione (quantomeno in Danimarca). Può darsi che in altri paesi impatti in modo diverso, ma possiamo comunque stabilire che è una variabile molto importante in ogni caso. A questo punto ci si chiede: cosa spiega il 34% del gap restante? Sempre secondo la Gallen, c’è una sola risposta: la discriminazione. Concordo con questa idea, ma bisogna stare attenti a fare delle distinzioni tra una discriminazione logica ed una illogica, che ripeto non significa giustificare eticamente una rispetto all’altra, ma solo spiegare perché si verifica. Per discriminazione logica, in questo caso, intendo una discriminazione che avviene in modo consapevole perché si tiene conto di un possibile rischio: una donna che assumo oggi potrebbe un giorno essere incinta e comportare un costo per l’impresa sia per la maternità, sia per il calo di produttività da questa derivato.
Come abbiamo visto, questo rischio esiste e spiegherebbe perché le donne sono pagate meno anche se non madri e più produttive di un uomo. Abbiamo evidenze che questo avvenga? Considerando i dati presi in esame precedentemente, vediamo come la differenza più grande tra retribuzione e produttività si ha proprio all’inizio della carriera di una donna, ovvero quando è in età più fertile e di conseguenza vi è maggiore incertezza sulla sua condizione familiare (una donna che assumo a 20 anni ha molto più probabilità di diventare madre di una di 40). La differenza tra retribuzione e produttività cala col tempo, ovvero man mano che il rischio di gravidanza si riduce. Di questo abbiamo ampia evidenza.
La discriminazione è quindi solo logicamente motivata? Nell’analisi del gender pay gap, possiamo introdurre ora la variabile che abbiamo chiamato discriminazione non logicamente motivata, ovvero una discriminazione immotivata dal punto di vista della gestione economica di un’impresa. Chiariamo subito un concetto: una discriminazione illogica è un costo per un’impresa e quindi ragione di inefficienza, oltre che eticamente deprecabile. Questa è la ragione per cui Milton Friedman sosteneva che non ci dovessero essere leggi di parità retributiva tra uomo e donna: se l’imprenditore sceglie di discriminare una donna, crea un’inefficienza nell’impresa ed è quindi giusto per Friedman che quell’imprenditore paghi in questo modo il costo della sua azione. La teoria economica ci spiega infatti come più un mercato è competitivo e più le aziende sono portate a ridurre le proprie inefficienze, e uno studio in particolare ci dimostra come i mercati che vengono liberalizzati tendono a ridurre il gender pay gap e ci conferma l’esistenza di una discriminazione illogica.
A questo punto ci resta il grande problema da affrontare: bisogna ridurre il gender pay gap e se sì come? Per quanto mi riguarda una diseguaglianza non è di per sé qualcosa da ridurre o eliminare: tutto dipende dalle cause che l’hanno generata. La differenza di reddito tra un lavandaio e un ingegnere può essere giustificata anche da un punto di vista etico, mentre quella tra uno schiavo e il suo schiavista può essere vista come assolutamente ingiusta. Cerchiamo quindi di analizzare le tre cause e trovare un modo per affrontarle separatamente. Partiamo dalla produttività: è giusto retribuire meno una donna perché passa più tempo con i figli? Se la scelta è libera, è assolutamente corretto pagarla meno poiché contribuisce meno allo sviluppo dell’impresa e quindi della società in generale, dedicandosi alla crescita di un figlio, che in realtà non comporta grandi benefici per la società nel suo insieme (se anche così fosse potremmo prevedere dei sussidi nel nostro modello, ma non è questo il punto dell’articolo).
Passiamo al secondo punto: è giusto pagare meno una donna perché rischia di comportare un costo in futuro? Questo problema è più complesso: la donna singola paga un costo a prescindere dalla scelta che farà ella stessa. Tuttavia la scelta dell’impresa è puramente razionale ed è difficile impedire da un punto di vista proibitivo ciò che è razionale avvenga. Come risolvere dunque il problema? C’è chi sostiene che un congedo di paternità eliminerebbe lo squilibrio, ma le differenze di produttività si prolungano ben oltre il congedo come abbiamo già visto e quindi non elimineremmo il problema, al massimo ridurremmo di poco la diseguaglianza. E se il congedo di paternità fosse obbligatorio? Personalmente ritengo la misura “totaitaria” perché stabilisce un modello di famiglia progressista che io posso anche apprezzare, ma che va contro modelli di vita e di famiglia diversi che altre persone potrebbero preferire. In ogni caso, anche volessimo fare questa scelta, non cambierebbe nulla: finito il congedo le donne lavorerebbero comunque meno degli uomini.
Come risolvere dunque il problema della discriminazione logicamente motivata? Di fatto sussidiando le imprese con un importo pari alla perdita generata dalla gravidanza dell’impiegata, una volta che questa resta incinta. Questo non significa che non possiamo stabilire anche un congedo di paternità volontario (sempre se basato su libera scelta), che può comunque aiutare a ridurre il gap di produttività. Resta l’ultimo problema: discriminazione non logicamente motivata. So che molti avranno la tentazione di dire: “serve una legge”. Il punto è che la legge c’è già, ma di fatto non è mai applicata e così in tutto il mondo. Come combattere dunque questo tipo di discriminazione? Come abbiamo già visto sopra: liberalizzando il più possibile i mercati per rendere le aziende efficienti. Questo porta il mercato a ridurre la discriminazione inefficiente al minimo, proprio perché essere aperti alle diversità conviene anche economicamente alle imprese.
Concludendo: per risolvere un problema bisogna affrontare i dati ed analizzarli a fondo. Non dobbiamo lasciare che le nostre credenze ci influenzino nella ricerca delle possibili cause di diseguaglianze e disparità: le nostre convinzioni etiche andrebbero lasciate per la fase successiva, in cui cerchiamo di capire cosa vogliamo che venga risolto, e poi dovremmo utilizzare la logica per risolverle in seguito. Troppo spesso si antepone l’ideologia all’analisi, non andando mai veramente a risolvere le dinamiche che generano ingiustizie.
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indubbiamente