Diciamolo francamente: lo sciopero indetto dai sindacati del pubblico impiego il prossimo 9 dicembre è sic et simpliciter ignominioso. Un’indecenza. Si potrebbe liquidare la questione con una battuta: se gli impiegati della PA per un giorno decidono di non presentarsi al lavoro, nessuno si accorgerebbe della differenza. Ma c’è poco da celiare.
Il governo ha stanziato 3,8 miliardi nella prossima legge di stabilità destinati a nuove assunzioni e ai rinnovi contrattuali dei dipendenti pubblici, bloccati da 4 anni. Si stima un aumento in busta paga di 107 euro netti, riservato a tutti indistintamente. E il sindacato che fa? Non pago della regalia – del tutto ingiustificata e improvvida – elargita a piene mani da un governo amico, decide di minacciare lo sciopero lamentando di non essere stato consultato e puntando a giocare al rialzo pur di arraffare il più possibile. Una scelta sconsiderata e, visto il momento, intollerabile.
Le piccole medie imprese sono allo stremo, alle prese con una crisi dall’impatto devastante, impossibilitate come sono a licenziare a causa del blocco dei licenziamenti imposto dal governo più dirigista d’Europa – prorogato fino a marzo dell’anno venturo proprio a causa delle pressioni dei sindacati a cui si è alfine acconciato – e con fatturati in calo quando va bene, risicati e in perdita nella stragrande maggioranza dei casi. A detta di Bankitalia, 1/3 di loro rischia di fallire entro l’anno (il 65% nei settori del turismo e della ristorazione per via delle chiusure protratte). Molte partite Iva e lavoratori autonomi sono alla fame. Letteralmente. Secondo Linkiesta, infatti, le richieste al banco alimentare sono aumentate del 40%. Malgrado la moratoria sui licenziamenti e la cassa integrazione, erano 528.000 i lavoratori che hanno perso il posto di lavoro durante la prima ondata pandemica, solo in parte riassorbiti grazie alla ripresa economica estiva: si tratta in larga parte di giovani, precari, donne, intermittenti o interinali, working poor; oggi non sappiamo ancora a quanti sia lievitata la disoccupazione, ma il quadro è funesto. L’OCSE, mesi fa, aveva elaborato due diversi scenari a seconda dell’andamento della pandemia e del suo contenimento da parte dei governi. Nel peggiore, preconizzava per l’Italia 1,2 milioni di posti di lavoro effettivi persi.
Le risorse scarseggiano, i cosiddetti ristori implementati in una messe di decreti sono del tutto insufficienti a compensare gli ammanchi di fatturato. Ciononostante il governo opta per aumentare i salari dei 3 milioni e rotti di dipendenti pubblici, ovvero la categoria sociale meno colpita, per usare un eufemismo, dalla crisi economica indotta dal virus. Questo dice molto sulle priorità e l’orientamento delle politiche pubbliche di questo governo. Si tratta, senza tanti giri di parole, di uno schiaffo in faccia ai lavoratori privati, 23 milioni di individui suscettibili all’andamento dell’economia, e quindi ai fallimenti di mercato, a fronte di un manipolo di lavoratori privilegiati, iper garantiti e tutelati solo perché alle dipendenze dello Stato Italiano.
In un editoriale magistrale pubblicato su Repubblica, il duo Boeri-Perotti scrive: “il fondo per il rinnovo dei contratti degli statali (esclusi medici e infermieri, per i quali è già stata prevista una posta separata di bilancio) vale 3,8 miliardi, per un aumento medio del 4% in un anno in cui l’inflazione sarà presumibilmente pari a zero se non negativa. Dato che il contratto degli statali è apripista rispetto a quello degli enti locali, l’aumento già riconosciuto agli statali comporta altri 3 miliardi di euro per i dipendenti di Comuni, Province, Regioni e Città metropolitane. Eppure secondo i sindacati del pubblico impiego questo aumento non basta: ci vuole di più, altrimenti bloccheranno i servizi pubblici nel mezzo dell’emergenza nazionale. Nel 2020 più di 6 milioni e mezzo di dipendenti privati sono finiti in cassa integrazione, con una riduzione media del 35-40% della retribuzione. Quando a zero ore, la Cig garantisce infatti un pagamento massimo tra gli 800 e i 1.200 euro. I dipendenti pubblici non hanno subito riduzioni delle loro retribuzioni, già mediamente più alte che quelle dei privati. Le differenze sono ancora più stridenti quando consideriamo i contratti a tempo determinato: tra i dipendenti privati in 700.000 hanno perso il lavoro, molti altri si sono visti abbassare le retribuzioni, già in partenza inferiori del 40% rispetto ai lavoratori temporanei nel pubblico. Nel pubblico impiego c’è chi ha smesso completamente di lavorare, eppure ha continuato a percepire il proprio stipendio pieno. Anzi, più di prima, perché dal luglio 2020 quasi tutti i dipendenti pubblici hanno ricevuto gli 80 euro del governo Renzi. Questo mentre le scuole italiane, al contrario che nel resto d’Europa, sono state chiuse da marzo”.
Tito Boeri, tra l’altro, ha avanzato una proposta assai articolata nel suo ultimo libro “Riprendiamoci lo Stato”: mettere in cassa integrazione tutti quei lavoratori del pubblico impiego che, per cause di forza maggiore, non possono lavorare (o non lo stanno facendo) da remoto. La legge esiste ma nessuno si perita di farla applicare. Anche perché non esiste nemmeno un sistema di monitoraggio per appurare chi, tra gli statali, seguita a lavorare da casa e chi no (magari anche per cause di forza maggiore, indipendenti dalla sua volontà). Il ministro della pubblica amministrazione, l’inadeguata Fabiana Dadone, ha ammesso che sono circa il 50% le mansioni che non possono essere svolte in regime di smart working. Il primo a sollevare il problema, destando scandalo (del tutto ingiustificato) e attirandosi gli strali degli apologeti del pubblico impiego, era stato Pietro Ichino. Se nel settore privato il lavoro da remoto è un formidabile strumento in grado di contemperare flessibilità oraria, produttività del lavoratore e notevole risparmio dei costi aziendali, nel pubblico invece è patente come sia uno strumento che riduce l’accountabily del lavoratore e favorisce comportamenti lassisti.
La cassa integrazione per i dipendenti pubblici è (sarebbe, visto che non pare essere presa in considerazione dal governo) un primo passo, una forma di giustizia sociale, un tentativo di introdurre maggiore equità in un momento drammatico della vita civile di questo Paese. Però da sola non basta.
Innanzitutto occorre svecchiare la nostra pubblica amministrazione, la più gerontocratica d’Europa (54 anni in media, solo il 2,9 sotto i 30 anni contro il 30% in Germania). Per questo è necessario indire concorsi pubblici, ma solo ed esclusivamente laddove serve (quindi non nella scuola, un milione circa di addetti, il tasso più alto di insegnanti per studenti tra i paesi OCSE). Inoltre è d’uopo riformare sul serio la pubblica amministrazione visto che alle nostre latitudini la sua produttività, se possibile, è addirittura in netto calo (come attesta l’ultimo rapporto stilato dall’osservatorio per i conti pubblici di Cottarelli).
E ancora, licenziare nel pubblico i lavoratori in esubero (specie al sud) e ricollocarli dove invece latitano (ad esempio i centri per l’impiego, stabilizzando i cosiddetti navigator) evitando le consuete infornate. Infine, replicare ciò che fece il Portogallo nel 2011 sotto i dettami della troika, decurtando del 10/20% le retribuzioni dei lavoratori del pubblico impiego – escludendo chi lavora nel settore sanitario – e dei pensionati retributivi sopra un certa soglia, intervendo con la scure anche su ferie maturate e tredicesime. Il tutto in funzione redistributiva: per destinarle in toto ai lavoratori in cassa integrazione, alle aziende in procinto di chiudere, e agli stessi medici e infermieri, che, con abnegazione, sopperiscono alle tante mancanze del sistema sanitario nazionale. Mi rendo conto si tratti di mera utopia, ma questo è ciò che serve.
Alla stregua di altri comportamenti opportunistici e discutibili, come ad esempio rifiutarsi di eseguire i tamponi da parte di alcuni medici di famiglia, oppure, pretese financo surreali, come ricorrere alla giustizia amministrativa reclamando i buoni pasto che non vengono più erogati da alcune amministrazioni pubbliche o il rimborso delle spese sostenute per i sistemi informatici e la connessione ad internet (!), lo sciopero è dunque non solo controproducente ma anche offensivo. Controproducente, giacché – come fanno notare Boeri e Perotti – accresce l’odio sociale nei confronti degli statali, esacerbando “la lotta di classe” tra garantiti e non. Offensivo, perché in spregio ai tanti lavoratori del privato che vedono erodersi il proprio reddito o addirittura perdere il lavoro; gli stessi lavoratori che, tramite i contributi e le tasse, foraggiano questa scalcinata e inefficiente macchina pubblica e mandano avanti il Paese.