Il PD, a seguito delle disavventure degli ultimi mesi, chiamato ora a far parte del nuovo governo “Conte bis”, sembra essere in cerca di una nuova strategia politica. Immaginando che l’obiettivo del partito rimanga il medesimo, e cioè perdere tutte le elezioni politiche per il periodo di tempo più lungo possibile, vorremmo fornire un nostro contributo, nella forma di decalogo, che aiuti la dirigenza a delineare il percorso più adatto a tal fine. Non ci permettiamo di inventar nulla: si tratta semplicemente del distillato dell’agire politico degli ultimi anni – decenni, forse; distillato che proponiamo in poche righe sperando che possa aiutare a riorganizzare le idee prima del congresso.
Primo: occorre confermare l’idea di essere un partito sufficientemente inaffidabile da essere inadatto al governo. L’ideale è continuare la scissione permanente in partiti sempre diversi, lanciandosi reciproche accuse di immoralità ed inettitudine. Tutte le energie polemiche devono essere indirizzate all’interno, mai all’esterno, anche perché questo porterebbe il partito a definire una propria identità culturale e politica. Sarebbe bene, però, che continuasse pure ad accompagnarvisi la totale incertezza sul progetto politico e sulle proposte per realizzarlo. È, certo, d’aiuto mantenere sempre vive le voci che proclamano obiettivi utopistici ed irrealizzabili e quelle che non indichino mai le soluzioni concretamente proposte.
Secondo: non dare soddisfazione alle legittime aspettative dell’elettorato è ormai moneta comune dei partiti politici. Se veramente si vuol continuare a perdere ad ogni appuntamento elettorale, l’inutilità del proprio progetto politico non basta. Occorre, invece, procedere sulla via (già ampiamente e ben percorsa in passato) di disprezzare le legittime esigenze degli elettori e le richieste di aiuto che questi rivolgono alla politica. Agli elettori non basta non essere soddisfatti. Per impedire che possano votarvi, occorre che si sentano snobbati, possibilmente con forme di disprezzo esplicite. La gente chiede legalità? Non è sufficiente non garantirla, occorre invece accusare i richiedenti di autoritarismo, razzismo e quanto altro, anche (e soprattutto) se con quella richiesta non c’entra un bel niente. Su questa strategia comunicativa si è già fatto molto ma il potenziale di sviluppo è potenzialmente illimitato.
Terzo: gli elettori sono attratti dalla coerenza. Certo, poi orientano le proprie scelte di voto anche in ragione delle idee in concreto sostenute in campagna elettorale, ma la coerenza pare rappresentare, in sé, un valore. Pertanto, occorre fornire una idea assolutamente vaga della propria identità culturale (possibilmente definendola in termini contraddittori e mutevoli, ogni volta negando quanto sostenuto il giorno prima). Nel confronto con i propri avversari politici non bisogna proporre alternative, perché potrebbe attrarre simpatie; bisogna, invece, rincorrere i partiti avversari sui loro stessi slogan; possibilmente su quelli meno compatibili con l’identità di partito, in modo tale da esser certi di non poter risultare vincitori. Mai farsi portavoce delle esigenze dei deboli, dei diritti e delle libertà di tutti e dell’equità: si rischia di attirare eccessivi consensi. E, soprattutto, attenzione a non manifestare buon senso.
Quarto: occorre scegliere accuratamente le battaglie politiche da combattere, perché, nel caso in cui fossero vinte, determinerebbero inevitabilmente la simpatia di chi le ha condivise o di chi ne beneficia. Se la maggior parte della popolazione manifesta una necessità di ordine generale è assai pericoloso farsene carico. Molto meglio battersi per battaglie interessanti piccoli gruppi sociali, possibilmente già beneficiate dalla politica. È il modo migliore per determinare l’allontanamento anche degli elettori più affezionati. In particolare, occorre cercare di definire la propria identità politica proprio intorno a queste battaglie di nicchia o micro-nicchia. Anche qui, tenere ben presente la seconda regola, quella del disprezzo: se una frazione sempre più alta di popolazione scende sotto la soglia di povertà, obiettate orgogliosamente di essere troppo impegnati, al momento, a lavorare su altro. Confermate ogni qualvolta sia possibile, indipendentemente dai contenuti di ciò che fate, di non avere minimamente il senso delle priorità.
Quinto: mai spiegare il senso delle proprie posizioni politiche, si corre il rischio che gli elettori possano capirle e, addirittura, condividerle. È ancora vivo il dibattito sul festeggiamento del 4 novembre e sulla “preferenza” del PD per la ricorrenza del 25 aprile. Inutile stare a dire che il 25 aprile 1945 il territorio italiano è stato liberato dalla dittatura nazifascista, che simbolicamente ha (dovrebbe avere) valore identitario per il nostro Paese, perché da lì è partito il percorso di diritti e libertà che ci ha condotto a dove siamo oggi. Ed è inutile spiegare che il festeggiamento dell’armistizio “di Villa Giusti” del 4 novembre 2018, rappresentante la “vittoria” della prima guerra mondiale, simbolicamente rappresenta il ricordo di una politica militaristica e nazionalistica che la Carta costituzionale ripudia espressamente all’art. 11. Meglio il silenzio. Ma se proprio è necessario dir qualcosa, allora occorre fornire risposte confuse e storicamente ignoranti, possibilmente rispettose della seconda regola, quella del disprezzo: invece di provare a valorizzare quel che di buono rappresenta, oggi, il 4 novembre, gettate il maggior fango possibile sulle forze armate e sul loro ruolo nella società. Se possibile, mai prendere le distanze dagli slogan vergognosi contro le forze dell’ordine ai cortei. Insomma: create la maggior antipatia possibile nel maggior numero possibile di persone.
Sesto: la gente vuole capire e la politica è comprensibile quando si traduce in fatti. Parlare di fatti è, pertanto, assai pericoloso. Occorre, invece, un forte sforzo di astrazione, tale da rendere il discorso il più lontano possibile dalle persone e dai loro bisogni. “Lotta di classe”, “emancipazione delle masse” e simili sono formule preziosissime a tal fine. Occorre, però, cercare di svilupparne sempre di nuove, perché con l’uso alcune di loro tendono ad acquisire un significato comprensibile ai più. Si propone, per le scadenze elettorali, di continuare a far leva su un programma elettorale totalmente privo di contenuti concreti come “impedire di far vincere le destre”; programma che, apparentemente, ai fini della disfatta elettorale funziona egregiamente da decenni.
Settimo: una variante della precedente. Occorre essere il più contraddittori possibili per far sì di essere percepiti anche come in sprezzante mala fede. Ad esempio, dopo anni di campagne elettorali basate sulla lotta al conflitto di interessi del proprio avversario politico, sarebbe bene procurarsi conflitti di interessi a propria volta (pur se in settori differenti) e poi gestire le eventuali obiezioni nel modo più opaco possibile. Negare l’evidenza è sempre una strategia premiante. Ma un’altra strategia sufficientemente irritante (che dovrebbe, pertanto, garantire la sconfitta elettorale) potrebbe consistere nel rilevare la ben differente eticità tra i propri aderenti e “gli altri”, garantendo la propria incorruttibilità e serenità di giudizio. In ogni caso, dichiararsi campioni della moralità ma poi, di fronte a contestazioni ben documentate, rifiutare sempre di lasciare la propria posizione, soprattutto se per simili vicende all’estero invece le dimissioni sono la regola. Dovrebbe funzionare.
Ottavo: l’attuale tendenza di marketing elettorale consiste nel giocare al rialzo sulle promesse precedenti le elezioni, motivando, poi, il mancato rispetto degli impegni con occulte manovre di “poteri forti”, “lobby internazionali”, “BCE”, “Unione Europea” etc.. Attenzione a verificare lo stato di attuazione dei programmi avversari ed a fornire dati e numeri agli elettori: potrebbero allontanarsi dai partiti al governo e, in ipotesi, arrivare alla decisione di votare il PD. Molto meglio gestire il confronto con formule vuote, accuse ad personam, epiteti sempreverdi e simili. Una strategia piuttosto efficace consiste nel dedicare buona parte delle proprie energie a elaborare una teoria per la quale i partiti di governo possono qualificarsi come “populisti”, senza dare la sensazione che questo comporti alcuna conseguenza pratica. Se proprio non si riesce, rivolgere al proprio elettorato proposte prive di significato politico e di superficiale presa emotiva (gli inviti a “restare uniti” degli scorsi mesi si sono mostrati, al proposito, un colpo da maestro).
Nono: mai, mai, mai fare autocritica. Se gli elettori non votano il PD perché cambiare il PD? Meglio fantasticare sul cambiare gli elettori, il che, peraltro, garantisce il rispetto anche della seconda regola, quella del disprezzo. Mai formulare proposte politiche per quello che sono e personalizzare sempre le questioni. Se ci si accorge di essere la causa del problema invece della soluzione, mai proporre di lasciare il proprio posto: invece, promettere che si cambierà e che si sono capiti i propri errori. Meglio ancora offendere l’intelligenza di chi prova a rimanervi vicino, chiedendogli “aiutateci a cambiare”. Capito? Non ce ne andiamo a casa ma, invece, aiutateci a cambiare. Questo vale soprattutto per la dirigenza: non c’è nulla che gli elettori detestino come l’attaccamento alle posizioni di potere e di vertice a discapito dell’interesse comune. Pertanto, occorre continuare nella direzione già faticosamente intrapresa: manifestare un blando disinteresse (meglio sarebbe: un interesse visibilmente superficiale e strumentale) per il bene comune e, invece, rendere palese l’attaccamento morboso a poltrone, nomine, ruoli. Il selfie dei ministri del governo “Conte bis” mentre sorridono soddisfatti della poltrona guadagnata denota una magistrale padronanza di questa strategia.
Decimo: l’elemento più importante di tutti, ma su questo il PD vanta già una esperienza notevole: occorre considerare come male assoluto tutto quanto non corrisponda alle proprie convinzioni del momento, possibilmente ergendosi a giudici assoluti ed indiscutibili del buono e del giusto. Occorre che la maggioranza della popolazione e della classe politica (inclusa la propria) sia definita fascista, omofoba e razzista indipendentemente dal fatto che lo sia realmente, ma semplicemente perché non condivide le rare, ormai rarissime proposte di azione politica che formulate. Ideale sarebbe rispettare congiuntamente questa decima regola con la prima (che persegue l’inaffidabilità politica del partito). Può pensarsi, ad esempio, a dare del razzista ad un proprio ministro che voglia cercare di regolare i flussi migratori più di quanto non lo si dia a chi spara a pallettoni per strada a italiani dalla pelle nera o a chi usa gli immigrati come schiavi per un compenso di pochi euro al giorno. Benissimo sfruttare anche le iniziative letterarie che, con semplici test intrisi di “benaltrismo” e saccente senso di superiorità, facciano risultare “fascisti” tutti gli italiani tranne, forse, l’autore del test di cui si tratta.
Non sarà facile ma state lavorando, tanto e bene. Mantenendo l’impegno profuso fino ad ora, non dubitiamo che riuscirete a perdere tutte le prossime elezioni per almeno una ventina d’anni. Avanti!