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Economia & Finanza

Declino Italiano: un male che viene da lontano

Ieri si celebrava l’Ascensione. Probabilmente non ve ne siete accorti perché nella cattolica Italia è giorno lavorativo dal 1977 grazie alla legge 54 del 5/3/1977,  parte della “Stangata” di Andreotti che inaugurò la pratica governativa di mettere le mani in tasca a chi lavora e produce ricchezza per pagare i parassiti.

Era dicembre 1971 quando fu firmato lo “Smithsonian Agreement” che mise fine agli accordi di Bretton Woods, dando inizio alla fluttuazione dei cambi. Nel febbraio del 1973 ogni legame tra dollaro e monete estere fu definitivamente reciso e lo standard aureo, ovvero la convertibilità in oro delle valute, fu quindi sostituito dall’attuale sistema di cambi flessibili. Il 6 ottobre 1973, Egitto e Siria attaccarono Israele dando inizio alla Guerra del Kippur (6-25 ottobre 1973). I paesi arabi associati all’OPEC (l’organizzazione dei paesi esportatori di petrolio) decisero di sostenere l’azione di Egitto e Siria tramite robusti aumenti del prezzo del barile ed embargo nei confronti dei paesi maggiormente filo-israeliani. Conseguenza di ciò fu una impennata dei prezzi e ad una repentina interruzione del flusso dell’approvvigionamento di petrolio verso le nazioni importatrici.

Arrivò al capolinea un lungo ciclo di sviluppo economico che aveva caratterizzato l’Occidente negli anni cinquanta e sessanta spinto dal gigantesco sforzo di ricostruzione postbellica. Sulle potenze industriali si abbatté l’“Austerity”. Finì l’epoca dell’oro nero a poco prezzo. Era il 1974 e l’Italia della Lira era la nazione che barcollava di più ed aveva drammaticamente bisogno di liquidità per far fronte ai costi della poderosa macchina pubblica che quattro anni prima aveva anche visto la messa in esercizio delle regioni a statuto ordinario con le prime elezioni. La creazione di nuove poltrone, di nuovi centri di spesa inutile, di nuovi posti di lavoro a servizio delle forze politiche e (nel 1973) le baby pensioni avevano prosciugato le casse del Tesoro.

Il 31 Agosto 1974 il cancelliere tedesco Helmut Schmidt incontrò a Bellagio nella cornice maestosa del Lago di Como il presidente del consiglio italiano, Mariano Rumor, arrivato con il cappello in mano. Di fronte alla supplica del democristiano Schmidt dichiarò che “La Banca federale germanica (l’arcigna Bundesbank) metterà a disposizione della Banca d’Italia per un biennio, con un onere di interessi uguale a quello dei buoni del Tesoro degli Stati Uniti, due miliardi di dollari contenuti nelle proprie riserve”. Il salvataggio dell’Italia alla canna del gas fu sancito con una stretta di mano, ma soprattutto con l’impegno di una parte delle riserve auree della Banca d’Italia ignominiosamente messe a garanzia del prestito.

I due anni passano, ma la situazione italiana divenne ancora più disastrosa ed il 25 Agosto 1976 (l’anno delle famose elezioni all’insegna del “turiamoci il naso”) il prestito fu rinegoziato perché il governo catto-comunista di cosiddetta Unità Nazionale[1] aveva accelerato la traiettoria verso la bancarotta. Nel frattempo la liretta continuava ad essere massacrata sui mercati mentre il prezzo dell’oro scendeva. Quindi l’ammontare del pegno aureo aumentò fino a ben un quarto delle riserve auree italiane.

La situazione italiana ad inizio ’77 è drammatica, tra terrorismo, scioperi selvaggi, chiusure di fabbriche e imprese pubbliche in passivo. Il rischio di vedere un quarto delle riserve auree viaggiare dai forzieri di via Nazionale verso Francoforte schizza verso il firmamento.

Si imponeva quella che oggi chiameremo una manovra aggiuntiva fatta di misure severe, come l’introduzione del super-bollo per i diesel e l’abolizione di festività con la su citata legge 54. Venne definita la “Stangata” e il bastone da allora non ha mai smesso di abbattersi sulla parte sana dell’economia. Nei decenni si sono succedute politiche clientelari e mancette da governi levantini a discapito di quegli investimenti che servono ad ammodernare le infrastrutture materiali ed immateriali di un paese che così ha visto in 40 anni il depauperamento del proprio capitale umano e del vantaggio tecnologico. L’Italia non vive una crisi monetaria né tanto meno una crisi generata da fattori esogeni. L’Italia vive una crisi strutturale profonda che negli anni si è accentuata per la mancanza di politiche per lo sviluppo, ovvero di quelle riforme che il resto d’Europa ha saputo negli anni esprimere incluso i paesi periferici, Portogallo, Irlanda, Spagna e persino la Grecia sotto la Trojka. Basta un grafico del PIL per capita per verificare che il trend di crescita di paesi EU, e persino dell’Eurozona è in linea con il Giappone e gli Stati Uniti.

Questa debolezza strutturale tutta italiana ha fatto sì che non si fosse più in gradi di competere sui segmenti medio alti dell’industria manufatturiera e dei servizi, come il resto d’Europa, ma che si guardasse sempre di più, se pur ancora con poche eccezioni, ai segmenti di mercato bassi dove i leader mondiali sono i paesi emergenti o quelli rimasti legati alla vetusta definizione di “Terzo Mondo”.

L’Italia è un malato cronico, governato da venditori di pozioni magiche che nelle fiere spacciano intrugli maleodoranti per elisir miracolosi. I leader e gli influencer del popolo somarista lusingano un elettorato frastornato con il miraggio dell’eterna ricchezza nel paradiso della stampa illimitata della nuova lira con l’equazione fasulla “spesa + svalutazione = benessere”. La stessa equazione che faceva splendida mostra di sé nei manifesti elettorali di Chavez e Maduro sui muri di Caracas.


[1] Era il governo monocolore DC presieduto da Andreotti, nato dalla formula andreottiana della “non sfiducia” con l’astensione delle altre forti parlamentari Pri, Pli, Pci, Psi, Psdi, ma in sostanza istituiva una gestione condominiale tra Moro Andreotti e Berlinguer con i socialisti nel ruolo del cagnolino da salotto.

1 comment

Costantino Cipolloni 02/06/2019 at 10:29

Analisi assolutamente condivisibile
Ci hanno condannato as essere il fanalino di coda. Lo dimostra il numero basso dei laureti, l’assoluta mancanza di investimenti nella formazione e la fuga di cervelli

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