L’interpretazione euroscettica della crisi greca caratterizzata da un minimo di serietà, che cioè riconosce come radice del problema l’insufficienza produttiva endemica del paese, considera che la base produttiva greca venne danneggiata dall’appartenenza della Grecia al mercato unico europeo.
Dal punto di vista della teoria economica l’entrata di un paese come la Grecia nella Comunità, decisamente meno sviluppato rispetto agli altri membri, sarebbe infatti stata rischiosa per la sua economia a causa della successiva difficoltà nell’aumentare rapidamente la propria produttività e competitività fino ai livelli necessari per far fronte alla concorrenza estera in un mercato unico, senza più barriere protettive. L’UE ha risposto a situazioni del genere, mobilitando finanziamenti verso le regioni meno sviluppate attraverso sussidi per lo sviluppo. La politica degli aiuti europei costituisce un tentativo di sostegno delle economie meno avanzate dell’Unione, offrendo uno slancio alla loro capacità produttiva. Per i paesi più ricchi questi aiuti sono il prezzo che devono pagare se vogliono mantenere e promuovere il mercato unico, da cui traggono grandi vantaggi, mentre per quelli più poveri l’efficace e giusta allocazione di essi rappresenta un compito ma ancora di più una grande opportunità: probabilmente mai nella storia mondiale la crescita di un paese fu così fortemente voluta da altri paesi più ricchi, al punto di sostenerla per decenni con risorse proprie date in regalo.
Così, tra il 1981 e il 2009 i fondi concessi alla Grecia dall’Unione europea erano pari a 203,5 miliardi di euro al netto dei contributi del Paese al bilancio dell’Unione – l’importo lordo sarebbe pari a circa 240 miliardi. Inoltre, nell’ambito della Politica agricola comune sono stati trasferiti verso la Grecia complessivamente 169 miliardi di euro, mentre i crediti devoluti alla Grecia dalla Banca Europea per gli Investimenti (BEI) raggiungono i 61,69 miliardi di euro (elaborazione Eurobank EFG su dati EU Budget Financial Reports e BEI). Tutti gli importi sono calcolati a prezzi stabili 2010.
Dunque l’importo netto di denaro offerto alla Grecia dall’UE raggiunge complessivamente i 444,19 miliardi di euro in prezzi stabili 2010, vale a dire che è pari al 237,7% del Pil greco per il 2014. In questo enorme ammontare di soldi regalati dall’UE alla Grecia vanno aggiunti i flussi di crediti a tassi bassissimi di cui a lungo ha goduto il Paese grazie alla sua appartenenza nell’Unione, e particolarmente grazie alla potenza economica tedesca. Si tratta di un vero e proprio oceano di denaro e di una grande opportunità per la Grecia di investire per crescita della produttività; un importo indubbiamente più che sufficiente per dare al paese la scossa necessaria affinché esso raggiungesse o quantomeno si avvicinasse ai livelli di produttività e competitività propri dei paesi europei più avanzati.
A questo punto è opportuno riprendere la comparazione dell’economia greca con quelle degli altri tre paesi meno avanzati e quindi storicamente destinatari principali degli aiuti europei, la Spagna, l’Irlanda e il Portogallo. Questa volta mi focalizzerò sull’aumento medio annuo percentuale di esportazioni di beni dei quattro paesi, comparando il periodo che parte dal 1964 (anno per cui abbiamo dati ufficiali per tutti i paesi) fino all’anno della loro entrata nel mercato unico europeo – 1981 per la Grecia, 1986 per la Spagna e il Portogallo, 1973 per l’Irlanda –, e in seguito da quella data e fino al 2007. In questo modo sarà evidenziato l’effetto reale che ha avuto l’appartenenza al mercato unico per ogni paese sulla sua produttività e competitività.
Secondo i risultati, provenienti da mie elaborazioni su dati di AMECO, la Grecia passa dal 52,5% al 3,4%, la Spagna dal 29,5% al 19,7%, il Portogallo dal 21,5% al 16,3% e l’Irlanda dal 11,6% al 57,1%. Questi dati indicano un’esplosione della produttività e competitività irlandese, un percorso regolare e stabile di Spagna e Portogallo (la diminuzione dei tassi percentuali è quella che avremmo aspettato visto l’aumento dei numeri assoluti), e un tremendo crollo della competitività greca.
Se combiniamo questi dati con quelli presentati prima, e il grandissimo distacco delle prestazioni greche da quelle degli altri tre paesi durante il periodo 1981-2007, diventa ovvio che l’appartenenza al mercato comune non può in nessun caso rappresentare una causa o una giustificazione per il crollo industriale greco avvenuto durante e dopo gli anni ’80, siccome non c’è stato in nessun altro paese un calo o stagnazione dei livelli di produttività e competitività. Invece il mercato comune e le politiche europee hanno favorito la crescita dei paesi che ne hanno fatto parte, convalidando le aspettative della teoria economica.
Da questi risultati si deduce però anche un altro fatto, e cioè che quella greca è stata un’economia estremamente dinamica e crescente fra 1964-1981, addirittura molto di più degli altri paesi presi in esame. Questo fatto prova che sarebbe sbagliata anche l’opinione di chi nella triste condizione attuale vede una ferrea legge proveniente dalle deformità della cultura e società neogreca. In realtà nonostante i grandi problemi culturali, politici e sociali di quel periodo – in gran parte esistenti anche oggi – con la mancanza di democrazia e libertà politica, i rapporti bizantini tra Stato e Chiesa, l’esclusione di una grandissima parte della popolazione, grande corruzione, dominio soppressivo di idee ultra-conservatrici, livelli d’istruzione bassi, mancanza di una struttura economica sviluppata, la Grecia a lungo ha seguito un percorso capitalistico di successo cavalcando il boom economico internazionale del dopo-guerra, con forte crescita industriale e alta occupazione.
Come l’economia europea più dinamica e crescente fra quelle di ultima industrializzazione, finì in un circolo vizioso devastante per la sua base produttiva, e immersa nel debito, a partire dall’inizio degli anni ottanta? Questa è la domanda alla quale gli esperti e quelli che si pensano amici del popolo greco devono rispondere, se vogliono veramente aiutarlo.
Vedi anche Crisi greca, non europea – Parte I