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Cosa succederebbe se abolissimo il GreenPass?

GreenPass

I manifestanti da giorni chiedono l’abolizione del GreenPass sui luoghi di lavoro. È pacifico affermare che il GreenPass sia una forma di limitazione più o meno incisiva della vita di tutti noi, è pacifico affermare che il GreenPass sia una norma con parecchie ipocrisie, è pacifico affermare che in alcuni casi il GreenPass nemmeno viene controllato, creando un incentivo, soprattutto in alcuni luoghi, a mentire sul suo possesso. Ci sarebbero altre cose pacifiche da affermare, ma non vorrei tediarvi troppo.

Piuttosto, appare interessante notare che alcuni paesi europei, specie l’Italia, si stiano muovendo verso progressive restrizioni delle libertà nonostante l’alto numero di vaccinazioni, il basso numero di contagi e il basso numero di morti, quando invece dovremmo vedere il movimento opposto: ovvero una progressiva riduzione delle limitazioni, quanto meno per i possessori di GreenPass. Probabilmente l’Italia è stato il primo paese europeo a muoversi in tal senso, ma il dibattito rimane aperto in molti altri paesi, dalla Germania all’Austria.

Qualcuno suggerisce di abolire il GreenPass, almeno sul luogo di lavoro, ma oltre gli slogan esistono alcune criticità.

Secondo una nota dell’Inail:

“I contagi sul lavoro da Covid-19 denunciati all’Inail dall’inizio della pandemia alla data dello scorso 31 marzo sono 165.528, pari a circa un quarto del complesso delle denunce di infortunio sul lavoro pervenute dal gennaio 2020 e al 4,6% del totale dei contagiati nazionali comunicati dall’Istituto superiore di sanità (Iss) alla stessa data. Rispetto alle 156.766 infezioni di origine professionale rilevate alla fine di febbraio, l’incremento è di 8.762 casi (+5,6%), di cui 3.522 riferiti a marzo, 1.605 a febbraio e 1.136 a gennaio di quest’anno, 1.089 a dicembre, 860 a novembre e 413 a ottobre 2020, e i restanti 137 agli altri mesi dell’anno scorso. Il consolidamento dei dati permette, infatti, di acquisire informazioni non disponibili nelle rilevazioni precedenti.”

E si legge ancora poco più sotto:

L’incidenza della “seconda ondata” è più del doppio della prima. Come emerge dal quindicesimo report nazionale elaborato dalla Consulenza statistico attuariale dell’Inail”

Ipotizziamo quindi per un solo istante di abolire il GreenPass quanto meno nei luoghi di lavoro. Chiediamoci quindi cosa accadrebbe.

Secondo alcuni nulla, secondo altri il disastro. Dal punto di vista del diritto del lavoro abbiamo però alcuni precedenti, che sicuramente non sono da interpretare come definitivi, ma che ci possono aiutare a comprendere l’evolvere della situazione. Torniamo quindi per un istante ai momenti in cui il GreenPass non era obbligatorio e non ne sentivamo parlare.

A quel tempo cosa succedeva?

Per capirlo bisogna partire dall’articolo 2087 del Codice civile. L’articolo sancisce, in buona sostanza, che il datore di lavoro deve mettere in atto tutti i presidi di sicurezza per l’attività lavorativa:

“L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.”

Ci si chiede quindi se l’imprenditore possa essere ritenuto responsabile nella situazione in cui un dipendente contragga il virus. E qui la questione si fa annosa. Cerchiamo di spiegarlo in modo semplice.

L’art. 15 lettera b) del D.Lgs. n. 81/08 (meglio noto come Testo Unico sulla sicurezza nei luoghi di lavoro) è un corollario del sopracitato articolo 2087, il quale prevede che, oltre quanto, detto venga introdotta dall’imprenditore ogni altra misura ricavabile – appunto ai sensi dell’art. 2087 c.c. – dal sapere scientifico e tecnologico. Quindi stiamo parlando di una norma che nella sua semplicità nasconde un’interpretazione duplice, che divide gli esperti di diritto del lavoro. Anche se, ad onore del vero, il conflitto è piuttosto recente.

La disputa ha ad oggetto la corretta interpretazione dell’articolo 2087 c.c. alla luce del contesto emergenziale. Alcuni giuristi (in testa, Pietro Ichino), infatti, partono dal presupposto che la costante giurisprudenza della Corte di Cassazione ha sempre considerato l’art. 2087 c.c. una norma aperta, con «funzione di adeguamento permanente dell’ordinamento alla sottostante realtà socio-economica» (v. Cass. n.  5048 del 1988 e da ultimo Cass. 24408 del 2021). In questo modo, si argomenta che il datore di lavoro abbia già oggi il potere (che, ad essere precisi, sarebbe un dovere) di richiedere ai propri dipendenti la vaccinazione contro il COVID-19, allorquando le modalità di svolgimento del lavoro degli stessi presentino un rischio di contagio. A detta di altri giuristi, invece, una simile lettura dell’art. 2087 presta il fianco ad alcune critiche. La prima fa leva sull’esistenza nel nostro ordinamento di una norma contenuta nel D.L. 8 aprile 2020 n. 23/2020 all’articolo 29-bis, che dispone che «[a]i fini della tutela contro il rischio di contagio da COVID-19, i datori di lavoro pubblici e privati adempiono all’obbligo di cui all’articolo 2087 del codice civile mediante l’applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del COVID-19 negli ambienti di lavoro» sottoscritto tra governo e parti sociali il 24 aprile 2020 ed aggiornato il 6 aprile 2021. Dal momento che nel suddetto protocollo non si fa riferimento ai vaccini, i giuristi che sostengono questa interpretazione escludono che il datore di lavoro possa richiedere ai propri dipendenti di sottoporsi alla vaccinazione contro il COVID-19. Tuttavia, altri studiosi dubitano che il Protocollo possa avere un valore precettivo tale da cristallizzare gli obblighi di sicurezza sul lavoro in capo al datore, precludendogli di adeguarli alle nuove situazioni di fatto successive all’emanazione del suddetto protocollo.  La seconda critica, invece, fa leva sul fatto che l’art. 32 della Costituzione italiana impone che ogni trattamento sanitario obbligatorio (tra cui anche la vaccinazione) debba essere previsto specificamente per legge, non bastando, come nel caso di specie, che a prescriverlo sia una direttiva del datore di lavoro. L’argomento, però, deve fare i conti con il fatto che tanto l’art. 2087 quanto il T.U. sulla sicurezza nei luoghi di lavoro, interpretati secondo l’orientamento prevalente della Cassazione, sono già in grado di costituire (senza dubbio, con un  certo margine di forzatura) una base giuridica sufficiente per poter dire che il vaccino obbligatorio richiesto dal datore di lavoro sia previsto per legge. Non sembra invece condivisibile la terza critica che fa(ceva) leva sul divieto del datore di lavoro di chiedere il certificato di avvenuta vaccinazione sottolineato anche dal Garante Privacy nelle linee guida pubblicate la scorsa primavera: allorquando infatti l’obbligo fosse previsto dal datore di lavoro nell’ambito dell’art. 2087, questa richiesta diverrebbe un trattamento dei dati personali del lavoratore necessario all’esecuzione del contratto di lavoro e, come tale, in principio legittima ex art. 6 comma 1 lettera b del Regolamento (UE) 2016/679 (GDPR).

Appare quindi evidente che in questa situazione l’imprenditore non abbia certezza nel diritto.

Ma perché il legislatore e la giurisprudenza hanno voluto che il 2087 rimanesse una norma aperta? Qualcuno se lo sarà chiesto leggendo queste righe. Ebbene la risposta è abbastanza semplice. Nel caso in cui la realtà differisca dalla teoria, abbiamo la necessità di uno strumento che si adatti rapidamente al nuovo stato delle cose. Nel caso il divario fra questi due stati, la teoria e la pratica, si ampliasse è utile mettere in atto ciò che la conoscenza, ovvero la scienza e il progresso tecnologico, ci suggerisce di fare.

Non a caso alcune ordinanze suggeriscono che l’imprenditore possa allontanare dall’azienda, o sospendere la retribuzione o, nel caso estremo, licenziare il lavoratore non vaccinato:

  • Nell’ordinanza n. 2467 del 23 luglio 2021 del Tribunale di Modena si evince che: “in caso di lavoratori no-vax, che rifiutano di vaccinarsi contro il Covid-19, l’azienda che li ha assunti, è legittimata a sospenderli dal servizio; con anche il blocco del pagamento dello stipendio”.
  • Nell’ordinanza 18441/2021 del Tribunale di Roma si legge che: “quando non ci sono altre mansioni cui destinarlo, è legittima (anzi doverosa) la sospensione dal lavoro del lavoratore che, sottoposto a visita del medico di fabbrica, sia risultato non idoneo a stare a contatto con la clientela perché non sottoposto al vaccino Covid-19.
  • Diversa è invece l’interpretazione del Tribunale di Milano: “Anche il giudice milanese (come già avevano fatto i giudici di Modena, Belluno, Roma e Verona) ha poggiato il suo ragionamento sul disposto dell’art. 2087 c.c. e sugli obblighi contrattuali che compongono lo scambio di prestazioni tra lavoratore e datore di lavoro. Tuttavia, il caso sottoposto all’attenzione del Tribunale di Milano presenta una differenza rispetto ai precedenti. In questa occasione, infatti, il datore di lavoro ha omesso la verifica sulla possibilità di ricollocare il lavoratore a mansioni diverse. Sul tema, infatti, la giurisprudenza ha sempre affermato in modo chiaro ed inequivocabile che l’istituto della sospensione dal lavoro senza retribuzione è solo l’estrema conseguenza (per altro non sanzionatoria) di un percorso più lungo che onera il datore di lavoro di verificare se sia possibile ricollocare il lavoratore in una posizione che non lo esponesse a contatti con soggetti fragili”.

Certo non si deve dimenticare che tutte le ordinanze sopra citate avevano ad oggetto rapporti di lavoro particolari: a ricorrere, infatti, in tutti i casi considerati sono stati operatori sanitari prima dell’entrata in vigore dell’obbligo di cui al D.L. 44/2021. Appare quindi evidente e necessario un intervento del legislatore per chiarire quale sia la giusta via da seguire. Probabilmente il GreenPass aveva anche quell’obiettivo, e ancora più probabilmente sto io giustificando quel provvedimento in questo senso. Ma, a prescindere da tutto, non è accettabile una tale confusione, poiché chi ne paga le spese è il datore di lavoro, su cui grava l’obbligo, lecitamente, di mettere a disposizione del lavoratore un luogo di lavoro sicuro.

Definiamo sicuro un luogo di lavoro in cui non bisogna essere vaccinati contro il covid?

Se la risposta è sì, allora che venga scritta. Perché in caso contrario, l’alternativa, e non è una soluzione perfetta, è il GreenPass o l’obbligo vaccinale. Altrimenti, sareste più onesti nel dichiarare che si voglia scaricare una responsabilità dello stato al solito capro espiatorio: l’attività d’impresa.

E ancora, voi preferireste che fosse il datore di lavoro a distribuire patenti di immunità o che questi lascia-passare siano regolamentati da un ente terzo? Oppure addirittura che queste disposizioni non fossero nemmeno pensate?

In una situazione complessa, in cui non abbiamo precedenti, in cui la scienza non ha risposte definitive, vista l’assenza di serie storiche consolidate, ma che solo momentanee schiariscono una strada scura, è necessario mettere in campo delle soluzioni che permettano la convivenza con il virus. Migliori del GreenPass? Certamente. Ma allora anche meno ipocrite della stessa certificazione verde.

Lo scarica barile non è la soluzione.

Un sentito ringraziamento a Sonia Graziani e Marco Bellandi Giuffrida per la correzione della parte tecnica

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