Chi scrive si era sempre ripromesso di non dedicare, per nessun motivo, un articolo a Diego Fusaro. Le ragioni di questo proposito ormai disatteso erano due.
Innanzitutto Fusaro sembrava nascere come un personaggio folkloristico, destinato alle trasmissioni televisive un po’ borderline, come la Gabbia di Paragone. Stando così le cose, portare il fenomeno all’attenzione del pubblico poteva essere inutile, o addirittura controproducente.
La seconda ragione, molto più grave della prima, è che in fondo ci siamo cullati nella convinzione di poter disinnescare Diego Fusaro limitandoci semplicemente a deriderlo. Sia chiaro: il filosofo torinese sembra prestarsi benissimo al dileggio e alle risate di corridoio, ma questo aspetto della sua dimensione pubblica, come altri, fa parte di una strategia comunicativa precisa, ben oliata e in grado di produrre ottimi risultati. Inseguire quell’illusione esiziale, quindi, ci ha resi indirettamente partecipi del suo successo: oggi Fusaro ha infatti più di 200mila follower su Facebook e quasi 75mila su Twitter, pubblica con editori del calibro di Einaudi e Rizzoli e partecipa attivamente al dibattito politico italiano. Ma al netto di tutto ciò, perché improvvisamente dovremmo occuparci di lui?
Forse dovremmo farlo perché Fusaro ha scelto di essere la cassa di risonanza del panorama complottistico italiano e il nuovo maître à penser della destra regressiva. Ruoli, questi, cui Fusaro si presta sempre in maniera subdola, dissimulata e tuttavia riconoscibile. In un certo senso la dissimulazione è la vera cifra di Fusaro, e per metterla a nudo occorre capire che il tempo di deridere il filosofo torinese è abbondantemente finito: ora è giunto il momento di capire come ‘funziona’ davvero il fenomeno Fusaro.
Oltre al suo immaginario marxista deviato – per il quale rimando all’intramontabile articolo di Raffaele Alberto Ventura – sono due gli aspetti fondamentali della propaganda di Fusaro: la costruzione di una posa da intellettuale e l’impiego di un linguaggio appariscente. Questi due elementi si combinano fra di loro, alimentandosi a vicenda. L’impiego di un lessico inutilmente forbito cementa l’immagine di un Fusaro autorevole; a sua volta il tono cattedratico e lo stile magniloquente giustificano il linguaggio prolisso. Prendiamo un esempio concreto. In un post su Facebook datato 4 luglio 2017 Fusaro scrive:
«L’atomistica liberale mira a dissolvere la famiglia nella pluralità nomade e diasporica degli io irrelati o, in modo convergente, a ridefinirla come mero assemblaggio effimero e a tempo determinato, rispondente in via esclusiva al libero e illimitato desiderio di individui senza residua identità di genere e aspiranti unicamente al plusgodimento cinico.»
Questo periodo sconclusionato, che da esterni ci lascia perplessi, viene invece accolto in maniera pacifica dal pubblico di Fusaro, il quale anzi rinforza la propria credenza nell’autorità del filosofo. Si badi che questo processo di rinforzo non richiede affatto che il lettore comprenda appieno il contenuto del post, ammesso che ve ne sia uno. Quello che accade, in realtà, è l’esatto opposto: è proprio dalla difficoltà di comprendere il contenuto che il lettore deriva una profondità indebita dalle parole di Fusaro.
Questo fenomeno cognitivo, che Dan Sperber a suo tempo battezzò “effetto guru”, si svolge a un livello irriflesso, ma può essere illustrato in un breve percorso inferenziale. Davanti a un’affermazione incredibilmente astrusa, come quella appena vista, il lettore può ritenere che l’autore, Fusaro, non avesse alcun motivo di essere così prolisso; oppure può pensare che il concetto veicolato fosse talmente profondo da non poter essere affidato a una prosa più semplice. A questo punto, se il lettore nutre già una certa fiducia nell’autorità di Fusaro, egli viene spinto a favorire la seconda spiegazione, quella dell’eccessiva profondità. E così l’affermazione astrusa viene accettata come pacifica, mentre l’autorità di Fusaro ne esce a sua volta rinforzata. La posa intellettuale giustifica il linguaggio prolisso; il linguaggio prolisso consolida la posa intellettuale.
Per spiegare questa sinergia è fondamentale capire che una prima funzione del linguaggio di Fusaro è quella puramente ornamentale. E nella tecnica dell’ornamento il filosofo torinese dà il meglio di sé, come dimostra il numero pressoché illimitato degli epiteti che Fusaro riserva ai suoi nemici immaginari. Sbirciando un paio di video del suo canale ne ho trovati almeno una decina, uno più ingegnoso dell’altro:
1) l’élite sradicata del turbocapitalismo; 2) i signori del globalismo; 3) l’élite finanz-capitalistica; 4) i poliorceti del turbomondialismo; 5) i plusimmigrazionisti sorosiani; 6) i signori del turboglobalismo capitalistico; 7) i pedagoghi del mondialismo; 8) l’élite turbo-finanziaria; 9) la cerchia di individui apolidi e sradicati della global class; 10) gli esponenti della classe aristrocratico-finanziaria.
A uno sguardo più attento emergono dei chiari pattern ricorrenti, come i prefissi “turbo” e “plus” che il torinese mescola di continuo per creare nuove combinazioni, potenzialmente infinite. Questa variabilità fasulla e artificiale, che potrebbe farci sorridere, è in realtà un elemento di quel vasto repertorio comunicativo con cui Fusaro ha venduto un’immagine autorevole e raffinata di sé. Un repertorio cui il torinese accompagna la retorica autocelebrativa della propria compostezza, allo scopo di accrescere il mito dell’intellettuale imperturbabile, del filosofo che dispensa verità arcane rimanendo freddo e impassibile.
In realtà la freddezza esteriore di Fusaro è il risultato della ripetizione meccanica di parole fra loro completamente interscambiabili. Considerate quattro o cinque espressioni dell’elenco precedente: sapreste giustificare la scelta dell’una piuttosto che dell’altra in un ipotetico discorso? Nei sermoni di Fusaro non fa alcuna differenza la scelta di un certo epiteto, salvo che per sottilissime sfumature. Se ancora non ne siete convinti, fate un esperimento: prendete un articolo di Fusaro e sostituite gli epiteti che trovate con altri presi a caso dal nostro elenco, o da qualsiasi altro contenuto del filosofo (magari un secondo articolo). Dopo la sostituzione scoprirete che il senso veicolato dall’articolo non è affatto mutato, ma rimane perfettamente intellegibile: proprio come gli ornamenti, le parole di Fusaro possono essere sostituite senza recare alcun danno alla (vuota) economia del suo discorso.
Ma se la prima funzione del linguaggio di Fusaro risponde a criteri estetici di abbellimento, la seconda è una funzione retorica: rendere le proprie argomentazioni inconfutabili sul piano razionale. Nella maggior parte dei casi, infatti, gli argomenti espressi dal filosofo torinese sono semplicemente incontestabili, nel senso che è impossibile discuterli.
Nell’estate del 2018 Fusaro pubblica un video di sé stesso a mezzo busto, uno dei tanti, per criticare un’uscita di Roberto Saviano. In mezzo a una palude di termini ampollosi, una frase colpisce più delle altre. In un passaggio Fusaro ci dice che Saviano, sceso dal suo attico di Nuova York (sic!), ha provato ad aprire il popolo
«al pensiero unico turbomondialista, plusimmigrazionista consacrato all’erranza diasporica planetaria delle nuove plebi policrome, private financo dei diritti più elementari.»
Dopo aver pronunciato questo incantesimo linguistico, Fusaro non ci darà alcuna definizione dei termini citati (che cos’è il pensiero unico turbomondialista?), non ci spiegherà le sue presupposizioni (quando hanno privato le plebi dei loro diritti più elementari?) e non stabilirà alcuna connessione fra queste affermazioni deliranti e la figura di Saviano. Invece il discorso di Fusaro si svilupperà in una sequela di insulti infiocchettati, di quelli che passano la soglia dell’accettabilità per il solo fatto di essere vestiti a festa.
Per la verità, chi mastica un po’ di teoria dell’argomentazione non avrà faticato a riconoscere, sotto la coltre del linguaggio artefatto, delle classiche fallacie ad hominem: ragionamenti che non contrastano nella sostanza le argomentazioni di Saviano, le quali non vengono nemmeno menzionate, ma si limitano ad attaccare lo scrittore napoletano sul piano personale. C’è quindi una larvata sfumatura di violenza nel linguaggio di Fusaro, che però rimane celata, dissimulata come dicevamo all’inizio di questo articolo. E qui sta il vero problema.
Il più grande abbaglio che si possa prendere con Diego Fusaro è pensare che le due funzioni del suo linguaggio, quella ornamentale e quella retorica, siano solo fini a sé stesse. Vi siete mai chiesti perché Fusaro sembra attrarre così tanto l’estrema destra? Vi siete mai chiesti perché Fusaro è così vicino a Casapound, come mai scrive su «Il Primato Nazionale»? E ancora: come vi spiegate la deriva complottista (anche qui, sempre dissimulata) che il filosofo ha preso negli ultimi anni? Come vi spiegate l’endorsement di Fusaro all’iniziativa #IoApro, il suo sforzo di aizzare le pulsioni negazioniste, i suoi tentativi di gettare un’ombra sui vaccini?
Queste affinità elettive si spiegano con l’enorme attrattiva che il linguaggio del torinese esercita su certi ambienti degenerati e regressivi. La propaganda di Fusaro, infatti, è costruita allo scopo di sublimare la violenza di quei mondi in un linguaggio astruso e bizantino, che si spaccia per filosofia. Il lessico altisonante e la prosa involuta di Fusaro sono una forma imbellettata, anestetizzata della violenza tribale che caratterizza una grossa fetta del suo pubblico.
Diego Fusaro ha capito, non senza una certa dose di furbizia, che la destra peggiore aveva bisogno di una legittimazione intellettuale, che aveva bisogno di camuffarsi, di rendersi appetibile al grande pubblico; anche a quello che deliberatamente non si iscriverebbe mai a Casapound. Ha capito inoltre che questa operazione culturale poteva funzionare solo tramite dissimulazione, e che doveva essere nascosta dietro lo spauracchio di una finta cultura marxista. Perché solo in Italia si può credere che basti citare a caso Marx e Gramsci per essere degli intellettuali; che è un po’ come se recitare a memoria una poesia di Carducci ci rendesse poeti.
Il filosofo torinese conosce la vera identità del suo pubblico di riferimento, ed è per questo motivo che si sforza di assumere una postura intellettuale che gli consenta di sussurrare a quelle frange estremiste senza mai rivolgervisi direttamente. E laddove qualcuno provi a evocare lo spettro del fascismo o del complottismo nelle sue parole, ecco che Fusaro riesuma la seconda funzione del suo linguaggio, quella retorica. Egli infatti sostiene, come ha già fatto in più di un’occasione, che chi lo accusa di essere fascista lo fa col sol scopo di silenziarlo a priori. Con questa scappatoia Fusaro rovescia ogni accusa e rende il suo discorso inconfutabile: qualsiasi critica nei suoi confronti verrà trasformata in un’evidenza che conferma la sua narrazione vittimistica, quella che lo vede imbavagliato e diffamato.
In realtà Fusaro, come ha cercato di spiegare Donatella Di Cesare, non è né fascista né complottista, e quand’anche lo fosse non sono questi i suoi tratti salienti. Fusaro è invece un sobillatore dei fascisti e dei complottisti; che è cosa ben più subdola e pericolosa, perché porta il contrassegno della dissimulazione. Ed è proprio in ragione di questa pericolosità che non possiamo più permetterci di ridere di Diego Fusaro.
1 comment
Ho letto con grande interesse. Complimenti per l’analisi del personaggio e delle caratteristiche retoriche. Bravo!