AttualitàDiritti civili

Ceci n’est pas un blasphème

Era un anno fa. Un insegnante di storia di nome Samuel Paty aveva tenuto una lezione sulla libertà d’espressione: desiderando discutere con gli studenti sulla laicità dello Stato, a titolo documentario, aveva mostrato la copertina degli artisti di Charlie Hebdo, che cinque anni prima era stata il pretesto di un attentato terroristico in nome di Allah. 

Il padre di una alunna musulmana, che quel giorno era in realtà assente in classe, mobilitò contro il docente la macchina del fango sui social. Un fanatico si sentì investito dalla sacra missione di difendere “Dio”: il 16 ottobre del 2020, nelle vicinanze di Parigi e della scuola di Conflans-Sainte-Honorine, Samuel Paty muore, accoltellato e decapitato da Abdoullakh Anzorov, diciottenne di origine cecena. L’azione non fu pianificata da organizzazioni o gruppi fondamentalisti. Fu la deliberata, folle, iniziativa di una persona. 

La continuità tra sentimento di offesa e vendetta, che la terribile vicenda del prof. Paty esemplifica, sembra assodata tanto che, per non istigare la vendetta, è opinione comune che sia rispettoso (conveniente) evitare provocazioni: evitare di essere blasfemi. Le esecuzioni vendicative attuate dagli integralisti, però, sono compiute non in rispetto di ideali o valori, ma di un ordine che il credente considera superiore alle leggi civili. Ci chiediamo: assecondare questa pretesa porterà alla pace? 

Da Charlie Hebdo in poi non si parla più di anticlericalismo: illustrazioni, fumetti, film, canzoni, libri non sono anticlericali, sono blasfemi. È proprio così? Gli artisti vogliono insultare, deridere, offendere il sentimento di fede? Avere opinioni critiche, finanche umoristiche, a riguardo delle tradizioni religiose significa, automaticamente, odiare i credenti?

Ceci n’est pas un blasphème è il Festival che si è svolto a Napoli dal 17 al 30 settembre con l’obiettivo di esaminare la questione e di spostare l’attenzione del pubblico dalla legittimità della provocazione in arte – legittimità che si è sempre pronti a discutere – alla capacità del pubblico di gestire le proprie reazioni. Tutti riconosciamo che i luoghi di culto sono inviolabili. Perché non lo sono altrettanto gli spazi e i contesti della cultura? Il sacro… fin dove si espande? 

Gli artisti si riferiscono alle icone e alle espressioni religiose in chiave soggettiva, psicologica, sociale: rielaborano forme note a tutti per trasmettere altri messaggi. I credenti, a loro volta, affermano che le intenzioni degli artisti siano irrilevanti: esiste un solo modo di leggere e interpretare le immagini sacre, il fedele ha il compito di affermarle nel mondo. Ma se le immagini sacre, travalicando la loro funzione di culto, diventano segni culturali e di propaganda tra i tanti, emblemi di potere politico ed istituzionale, non sarebbe coerente considerarli nello spazio pubblico quali segni comunicativi al pari di quelli di una qualsiasi altra ideologia?

Il Festival era organizzato per sezioni: mostre ed eventi. Le mostre, allestite presso il Palazzo delle Arti di Napoli (PAN) con il patrocinio morale del Comune, hanno offerto ai visitatori esempi di arte anticlericale e opere censurate per motivi religiosi. Presso il centro culturale autogestito Ex Asilo Filangieri e il Lanificio25, oltre agli spettacoli di stand up e ai concerti, alcuni talk show hanno affrontato il tema “blasfemia” in ambito teatrale, cinematografico e giuridico, rappresentando casi disparati, dall’Europa al Pakistan. Dalla varietà delle esperienze narrate durante questi incontri, è emerso con chiarezza che l’accusa di blasfemia è quasi sempre un pretesto e uno strumento di rivendicazione politica o per tacitare il dissenso. L’artista, o il “blasfemo” in senso generale, sono quasi sempre un banale capro espiatorio.  

Dal momento che nelle intenzioni degli organizzatori, la mostra potrebbe diventare itinerante, descriviamo in linea di massima il percorso espositivo. Si inizia con una premessa, presentando la campagna di abolizione dei reati che puniscono la blasfemia a cui il Festival aderisce: Dioscotto è, infatti, la campagna pastafariana, sorella di EndBlasphemyLaws. Pertanto si informano i visitatori della normativa vigente, operando un distinguo tra reato di blasfemia e di vilipendio della religione.

Il linguaggio prescelto, per questa sezione, è quello della satira: la Blasphemy box, “rivoluzionario” oggetto di design progettato dall’architetto Agostino Granato, si ispira ai bagni chimici e consente di bestemmiare in tutta sicurezza, perché può essere istallata dove viene più utile ed eventuali esternazioni blasfeme non possono più ledere il sentimento religioso: lo spazio in cui si è rintanato il povero bestemmiatore incontinente, infatti, per quanto mobile e temporaneo, è privato. Un Porco in Pretura e Dio è il migliore amico dell’uomo di Pierz, affiancano la Blasphemy Box, suggerendo a cittadini e artisti come mantenere la libertà creativa senza incorrere in sanzione. 

Raggirare l’ostacolo può essere un esercizio divertente, tuttavia come nessuno penserebbe che allungare le gonne delle donne sia sufficiente a tenerle lontane dagli stupri, così gli artisti sanno che nessuna cautela è bastevole: riferirsi al religioso, al sacro, in ogni caso e in qualsiasi modo, espone a rischi di censura, di querela e nei casi più gravi a pericolo di vita. La mostra, a questo punto, espone che cosa fa tanta paura, quali sono queste opere tanto scandalose e offensive, scegliendo alcuni esempi di arte anticlericale, in grado di palesare argomenti e modalità espressive oggi diffusamente definite “blasfeme”.

Ecco Don Zauker, di Daniele Caluri ed Emiliano Pagani. Non è semplicemente satira religiosa: il personaggio è un esorcista, eppure è tutt’altro che puro e ferrato in materia teologica, è pieno di vizi, è violento, volgare, però Don Zauker è soprattutto disarmante satira sociale. Vero interlocutore degli artisti non è il ministro di culto falso, ipocrita, bensì la comunità dei fedeli che seguita a concedere credito e fiducia a dispetto dell’evidenza.

La satira contro il clero – quel clero che è forma particolare del potere ed è tanto più cinico quanto più legittimato dalla fede – viene ripresa successivamente dalle carnali e inequivocabili vignette di Franzaroli. Il vignettista è impeccabile nel mostrare a colpo d’occhio la differenza tra ciò che questo potere dice e ciò che invece fa. In continuità con la denuncia delle ipocrisie e della falsa coscienza di certo clero, possiamo ritenere anche la Madonna con Bottino di Alt: l’autore sostituisce il bambino con un bottino, ottenuto con un collage di documenti originali rinvenuti dall’autore nella casa di famiglia: lettere, ricevute, atti che tracciano transazioni e vendite di indulgenze, grazie e sconti di anni in Purgatorio, per via delle quali la curia locale ha rastrellato beni e denari. L’opera era stata precedentemente esposta al Festival di Ar(t)cevia ed era stata rimossa perché tacciata di offendere il sentimento religioso. 

La sezione dedicata al subvertising porta alle estreme conseguenze il ragionamento, perché gli slogan più forti della chiesa – l’innocenza, la purezza, la verginità, il sacrificio – sono mostrati come paraventi persuasivi la cui vera finalità è fare commercio nonché esercitare abusi di potere e di razza. Viene denunciata la violenza sessuale sui minori, viene liberata la figura della Madonna dalla sua storica e acritica sottomissione al volere del padre, si ride dell’uso politico del crocifisso, si mostra il connubio tra comunicazione commerciale di massa e comunicazione religiosa. In questa sezione sono incluse due opere che hanno procurato agli autori denunce di vilipendio della religioneEcce homo erectus di Hogre, che denuncia la pedofilia nel clero, e Immaculata Conceptio in vitro di DoubleWhy che contesta la politica ecclesiastica a proposito della libertà di scelta in campo riproduttivo. 

Di taglio completamente diverso, biografico e tragico, le mostre di Antonio Mocciola e Carlo Porrini e quella di Abel Azcona. La prima, Vittime di Dio, è una narrazione per scatti fotografici di aberranti storie di condanne capitali, eseguite per motivi religiosi. La seconda è la ricostruzione documentaria delle vicende che hanno riguardato Azcona a seguito della sua opera Amen. Vale la pena soffermarsi su quest’ultima. 

L’artista, originario di Pamplona, figlio di una tossicodipendente prostituta, ancora piccolissimo viene tolto alla madre e viene dato in adozione a una famiglia dell’Opus Dei. Fin dall’età di tre anni, cominciano sevizie e violenze attuate da frequentatori della parrocchia e da membri del clero. La maturazione artistica di Azcona si compie attraversando un viaggio nel passato, rintracciando la madre, ritornando nella chiesa dove erano avvenuti gli abusi. Partecipa a circa 240 messe, il numero corrisponde ai casi di pedofilia denunciati quell’anno in Spagna. Riceve la comunione. Porta con sé le ostie consacrate. In occasione di una performance artistica, adopera le ostie per comporre la parola “pedofilia”. La curia, l’arcivescovo, forze politiche nazionaliste e di destra attaccano l’artista. Alle minacce, si uniscono le querele. Quella impugnata dagli Avvocati Cattolici va avanti e l’artista deve affrontare un lungo percorso giudiziario: 7 anni di processi che si concludono con la completa assoluzione.

Abel Azcona non ha interrotto la sua battaglia e prosegue con atti di disobbedienza civile volti a evidenziare lo sbilanciato rapporto tra giustizia e libertà individuale soprattutto all’interno del dominio del potere religioso. Il Festival, che si concludeva il 30 settembre, nella giornata internazionale della blasfemia, avrebbe dovuto ospitare una performance dal vivo che l’artista intendeva dedicare all’iniziativa. Nulla di questo è potuto accadere perché la direzione del PAN, con proprio rammarico, non ha autorizzato l’evento. Il motivo per cui tutto ciò è avvenuto è a sua volta meritevole di approfondimento. 

Pochi giorni dopo l’inaugurazione delle mostre, due degli artisti ospitati, subvertiser noti a livello europeo, nelle forme tipiche del subvertising, hanno istallato nella città di Napoli alcuni manifesti. Illustre Feccia e Ceffon hanno certamente inteso, con tale iniziativa, segnalare alla città il contributo che il Festival portava in seno al dibattito pubblico, nonché requisire per il proprio messaggio spazi a loro congeniali, quelli pubblici, che i subvertiser si sforzano di sabotare creativamente per sottrarli alla privatizzazione e alla comunicazione consumistica. Alcune strade del centro di Napoli si sono tramutate per qualche giorno in gallerie a cielo aperto, riproposti soggetti figurativi esposti al PAN, ma sono state diffuse anche immagini nuove. 

I manifesti di Ceffon hanno sortito le reazioni più agguerrite. La bestemmia, tabù che il Festival affronta come proprio nucleo tematico, nelle sue opere viene messa in primo piano e applicata a una varietà di esempi di comunicazione commerciale. L’artista ironizza sulla presunta innocenza della Disney, di Topolino, gioca con le assonanze di slogan e titoli popolari, irride la propaganda elettorale. Il senso del sacro e i contenuti della fede sono sempre più lontani: la satira è di costume e la bestemmia è la banale oscenità che però ci fa girare: senza l’imprecazione resteremmo assuefatti e pigri nel nostro cammino di passività. 

A Napoli, però, si era in campagna elettorale e nel vuoto di argomentazioni, la difesa del comune senso del pudore, le parole “tolleranza” e “rispetto”, usate quasi come password per entrare nelle grazie della maggioranza senza altro dover aggiungere, sono cadute proprio come il cacio sui maccheroni. Tutte le liste elettorali si sono proposte di difendere i napoletani dal vile attacco, di tutelare il sentimento religioso dalla gratuita provocazione. 

Le accuse ricolte all’amministrazione sono significative: come ha potuto, l’assessorato, autorizzare una mostra del genere? Lo spazio pubblico non può accogliere linguaggi blasfemi! Però lo spazio pubblico può essere messo a disposizione di idee parziali di altro tipo? Ad esempio, possiamo vedere la celebrazione della messa a reti unificate, possiamo vedere mostre sull’iconografia religiosa, possiamo concedere le piazze alle processioni religiose ma non ai cortei? È così? Lo Stato italiano è aconfessionale. La libertà d’espressione è un diritto costituzionale. Le idee religiose sono idee. Lo Stato dovrebbe trattarle in quanto tali. Si esige che le idee in contrapposizione alle credenze religiose siano palesate solo nelle loro nicchie e a voce bassa, mentre le idee religiose possano essere declamate a gran voce e nelle sedi più illustri. Perché? 

Un altro elemento ricorrente nelle accuse di chi si è opposto ai contenuti del Festival è stato: avete attaccato solo la chiesa cattolica, fatelo con i musulmani, se avete il coraggio! 

Posto che una esibizione di arte anticlericale non ha alcun obbligo di par condicio e può legittimamente esplorare un ambito circoscritto di un fenomeno; posto che forse è doveroso esplorare anzitutto le incoerenze di casa propria, prima di mettere bocca su quanto avviene nell’appartamento del vicino, anche in questo caso l’accusa è pretestuosa e non sorretta dai fatti: le altre sezioni del Festival, gli eventi live ad esempio, hanno dato ampio spazio alle altre religioni; basti pensare che la serata dedicata al cinema si è chiusa con la proiezione del cortometraggio di un autore pakistano. Il nocciolo però è un altro e riguarda la più pericolosa assimilazione della tradizione religiosa prevalente all’identità nazionale: se offendi la chiesa cattolica, stai offendendo il tuo paese, la tua nazione. Inoculare un principio etnico nei discorsi sulla libertà e sulla democrazia è un presupposto dannoso. 

Ma vediamo fino a che punto la strumentalizzazione può arrivare. In quei giorni, a Napoli, un bambino di pochi anni moriva tragicamente. I poster satirici di Ceffon che utilizzavano Topolino e alcuni simboli della Disney sono stati accusati di aver profanato l’immaginario dell’infanzia e, in particolare, di non avere avuto riguardo per la triste e luttuosa circostanza. Questa tesi è stata sostenuta, senza contraddittorio, persino in una trasmissione televisiva andata in onda su Rai due, ovvero Ore 14

L’organizzazione del Festival e il comune di Napoli non erano al corrente del progetto urbano degli artisti, non lo hanno autorizzato né commissionato. Tuttavia, a dispetto dei ripetuti chiarimenti, di riflesso la mostra stessa è stata accusata di vilipendio e oltraggio del sentimento religioso: nessuno dei detrattori si è recato a vedere le mostre o ha pensato di cercare confronto con la direzione artistica. Per una pura istigazione, e sulla base di pochissime informazioni immediate, sui social è stata mobilitata una campagna di dissenso. Significativamente i principali promotori del risentimento e del senso di indignazione sono stati candidati alle elezioni. L’assessorato e la direzione del PAN sono stati messi sotto pressione molto più di quanto sia stato fatto con gli autori dei poster o con gli organizzatori. 

La performance che Abel Azcona avrebbe dovuto mettere in scena consisteva in una posa scultorea: l’artista, vestito di nero, in piedi, collocato su piedistallo di fronte a un bambino, anch’egli in piedi, ma armato di pistola. Nessuna interazione. Nessun dialogo. La performance sarebbe durata circa mezzora e, a fronte dell’artista immobile, più bambini si sarebbero alternati di fronte a lui, in modo silenzioso e composto. Sarebbero stati selezionati in base all’età, compresa tra gli 8 e i 10 anni, e individuati presso accademie di danza o scuole teatrali, orientando la scelta su bambini preparati alle esigenze dell’esibizione e alla messa in scena. Non interessano in questa sede i significati metaforici dell’opera.

La mera descrizione operativa del gesto artistico è stata sufficiente a spaventare la direzione del PAN, già bersagliata da due settimane sul pretestuoso tema della bestemmia e dell’infanzia. Sembrava poco opportuno fidarsi della razionalità del giudizio del pubblico, che aveva dato prova di essere manovrato dalle logiche della campagna elettorale: candidati e sostenitori avevano sfacciatamente usato il tema religioso per attaccare l’amministrazione uscente e accattivarsi le simpatie di un elettorato emotivamente fragile e politicamente incompetente. Dunque… meglio di no.

Esaminando il progetto della performance, dovrebbe essere abbastanza facile dedurre che il riferimento dell’artista è all’abuso di potere e, soprattutto, che non c’è alcuna violazione gratuita né dei diritti dell’infanzia né del sentimento religioso: è proprio il caso di affermare che ceci n’est pas un blasphème: questa NON è blasfemia.  

Che cosa possiamo aggiungere? 

Sai qual è il colmo di un Festival per la libertà d’espressione? Finire con un episodio di censura preventiva. La paura delle reazioni, in questa circostanza fortunatamente in piccolo, si riafferma come sintomo di un problema molto più vasto e che sintetizziamo nella automatica, acritica disponibilità a negoziare le nostre libertà laddove siamo incapaci di disarmare i poteri. 

Leave a Comment

Verified by ExactMetrics