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Brexit e l’incapacità britannica di guardare in faccia la realtà

Brexit e l’incapacità britannica di guardare in faccia la realtà

Sir David Frost, Consigliere sull’Europa e capo negoziatore britannico con l’UE, è sicuramente un Brexiteer atipico. Diplomatico di carriera, distante dalla scena politica inglese fino alla recente nomina, è stato spesso indicato come la pecora nera del Foreign Office: uno dei pochi funzionari pubblici di alto grado ad essere un convinto sostenitore della Brexit. Una vita passata vicino alle istituzioni comunitarie, ma lontana dai riflettori. Difficile quindi che abbia occasione di esporre la sua visione al di fuori dei contesti negoziali. Lunedì 17 febbraio però, grazie ad un invito presso la prestigiosa Université Libre de Bruxelles, si è finalmente prestata l’opportunità di comprendere meglio la visione di Londra sul processo di uscita e sui negoziati futuri. Come me, tutti i partecipanti all’incontro sono giunti con grandi aspettative: il negoziatore della futura partnership tra UK e UE avrebbe tracciato un quadro realistico del processo in corso e degli obiettivi per gli accordi da concludere. Invece siamo rimasti tutti profondamente delusi, trovandoci ad assistere per oltre un’ora a discorsi che con la realtà avevano poco o nulla da spartire.

si resta da soli e si necessità di accordi, si finisce per accettare le norme di altri, soprattutto se si esce dal blocco più importante della WTO.

Almeno inizialmente il quadro tratteggiato da Frost conteneva elementi condivisibili: la scarsa convinzione di Londra verso il progetto iniziale della CECA, l’ingresso tardivo, il limitato impegno profuso nel processo e le tante differenziazioni rispetto agli altri Stati membri erano tutti sintomi di un profondo euroscetticismo di Londra. Più di ogni altra cosa, il Regno Unito non ha mai condiviso l’obiettivo di fondo, quella “ever closer union” che al di là della Manica è sempre stata irricevibile. Per Frost, che da euroentusiasta divenne presto euroscettico, minoranza tra i colleghi e “costretto” a tenere per sé stesso le proprie posizioni, deve essere stato un sollievo poter finalmente essere portavoce di un esecutivo di cui potesse condividere la visione sull’integrazione europea. Non vi è ragione di dubitare della genuinità di questo trascorso personale, era lecito però aspettarsi qualcosa in più da un oratore del suo livello rispetto ai soliti stereotipi dell’Unione come tecnocratica, usurpatrice delle prerogative nazionali e della necessità inglese di “riprendere il controllo”, in realtà mai ceduto a Bruxelles.

Opinabili come ragioni politiche, ma comunque importanti per comprendere la scelta inglese di uscire. Quando si è passati al quadro economico però si è entrati direttamente nel mondo della fantasia, una fantasia da cui Londra sembra incapace di distanziarsi. Prima il rifiuto di accettare come verosimili gli innumerevoli studi pubblicati da attori istituzionali e privati sulle conseguenze della Brexit per il Regno Unito, considerati tutti inattendibili ed esagerati nelle loro proiezioni negative. Poco importa, nella visione di Downing Street, se immancabilmente tutti questi studi prevedano un peggioramento per l’economia britannica rispetto allo scenario di permanenza nell’Unione: in questa prospettiva distorta non si tiene conto delle peculiarità britanniche, esattamente come Bruxelles non ne avrebbe tenuto conto durante il processo di integrazione. Il fatto che si possa passare da un giorno all’altro da un mercato unico ad un sistema di dazi e controlli doganali non sembra, secondo i Brexiteers, avere quasi alcun effetto sulle aziende britanniche.

È stato però sulle aspettative per la relazione futura che si è palesata l’incolmabile distanza tra Londra e il mondo reale. Innanzitutto, il capo negoziatore britannico si aspetta davvero di concludere un accordo comprensivo in stile CETA in meno di nove mesi, quando per il trattato con il Canada sono stati necessari cinque anni di colloqui. Per giustificare questa convinzione è stato presentato l’esempio del trattato di Roma sulla CEE, negoziato effettivamente in meno di un anno. Quello che però sfugge ai britannici è che non solo si trattò di un testo concluso su molti meno argomenti e in una dimensione economica molto meno complessa dell’attuale, ma anche che per vedere l’effettiva implementazione del trattato si dovettero aspettare gli anni ’80 e la Commissione Delors. Rifiutandosi di chiedere un’estensione del periodo di transizione, Londra punta a definire nei dettagli la relazione futura entro fine dicembre. Già fermandosi qui, l’ostinazione inglese a non voler ammettere le scarse probabilità di successo tradisce l’incomprensione della realtà. Si va però oltre, pretendendo che un tale accordo non dovrà portare a nessuna restrizione della neo-acquisita indipendenza britannica, né al compromesso sulle questioni irrinunciabili per il Regno Unito: l’unità nazionale inglese (ora più che mai in discussione) e il rifiuto di accettare il “level playing field” richiesto dall’Unione come prerequisito fondamentale per un accordo. L’attitudine britannica può sembrare una semplice tattica negoziale, ma dimostra l’incapacità di andare oltre la propria narrativa. Londra si è costruita una visione interamente surreale delle proprie possibilità ed è ormai finita prigioniera delle stesse: l’idea che si possa avere una relazione tra pari grado è risibile, se si tiene presente che solo la somma delle economie di Francia e Germania è già più che doppia rispetto al peso del Regno Unito. Così come risulta assurdo pensare davvero che il Regno Unito possa diventare uno dei principali attori normativi dello scenario globale: se si resta da soli e si necessità di accordi, si finisce per accettare le norme di altri, soprattutto se si esce dal blocco più importante della WTO.

Partendo da queste premesse piuttosto surreali, la possibilità di una hard Brexit a fine anno è sempre più concreta, al punto da sospettare che Londra non stia facendo altro che preparare la narrativa per un simile scenario e darne, ça va sans dire, la colpa all’UE. Per concludere in farsa, Frost si è definito un profondo ammiratore di De Gaulle, dimenticandosi però che proprio sulla prospettiva di integrare il Regno Unito il presidente francese ci aveva visto lungo, più lungo di tutti.

ndr. Il testo integrale del discorso di Sir David Frost in ULB è disponibile qui.

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