L’inflazione è ormai alta e non sembra destinata ad abbassarsi a breve. Le varie banche centrali hanno cominciato a prendere coscienza di ciò, forse con un po’ di colpevole ritardo. La Federal Reserve ha cominciato qualche mese fa ad alzare i tassi di interesse in maniera abbastanza aggressiva, e ci si aspettano azioni ancora più decise. Nel frattempo, la Banca centrale europea si è mostrata più reticente a farlo. Finora, non ha ancora alzato i tassi, anche se in tutta probabilità ci si aspetta che lo faccia a oggi, resta da capire di quanto.
Perché questa differenza? L’inflazione si è manifestata prima negli Stati Uniti e si trova ancora a livelli superiori, seppure i livelli nel mese di giugno siano piuttosto simili. La situazione presenta quindi similitudini, ma anche differenze che andrebbero tenute in considerazione. E siccome la battaglia contro l’inflazione negli Usa precede quella europea, è già possibile farsi un’idea di cosa potrebbe accadere nell’Eurozona, che si trova ad affrontare una situazione a mio avviso molto più grave.
Usa ed Eurozona: l’inflazione ha le stesse cause?
La politica monetaria ha ragioni per agire diversamente se lo shock che causa l’inflazione deriva dalla domanda o dall’offerta. Uno shock positivo di domanda aumenta inflazione e tasso di crescita di breve periodo, che la banca centrale può contrastare ad esempio agendo al rialzo sui tassi di interesse, riducendo la domanda aggregata.
Uno shock negativo di offerta invece aumenta l’inflazione mentre riduce la crescita. In questo caso, la banca centrale può decidere di ridurre l’inflazione, ma al costo di ridurre ulteriormente una crescita già debole o addirittura negativa.
A questo punto occorre chiedersi se le cause dell’inflazione sono le stesse nell’Eurozona e negli Stati Uniti. Rispondere è difficile, ma si possono accennare alcuni ragionamenti.
Le politiche monetarie sono state accomodanti per anni sia nell’Eurozona che negli Stati Uniti. Ma perché l’inflazione è scattata solo da un anno a questa parte? La risposta richiederebbe un articolo a parte. Mi limito a dire che le varie banche centrali hanno introdotto misure emergenziali di supporto all’economia per affrontare la pandemia, che ancora non sono del tutto rientrate. Oltretutto, come ben spiegato in un recente editoriale di Greenwood e Hanke, le espansioni monetarie nel post 2008 si inserivano in un contesto di instabilità e incertezza finanziaria oltre a una sottocapitalizzazione bancaria che ora non esiste più (o almeno, non è più così grave). È utile notare però che l’aumento di quantità di moneta nel periodo pandemico e post-pandemico è più evidente negli Stati Uniti che nell’Eurozona.
Sul fronte della domanda, influiscono anche politica fiscale e propensione alla spesa da parte di persone e imprese. Gli aiuti durante la pandemia negli Stati Uniti sono stati particolarmente generosi e duraturi, tra sussidi di disoccupazione superiori allo stipendio per molti lavoratori, trasferimenti diretti dal governo alle famiglie, eccetera. Un recente studio stima che la politica fiscale americana abbia contribuito in maniera notevole all’aumento dell’inflazione, e spiegherebbe perché questa sia salita di più e prima rispetto ad altri luoghi.
Nonostante i livelli di inflazione al momento simili nelle due regioni, ci sono ragioni per credere che lo shock da domanda sia più forte negli Stati Uniti che nell’Eurozona.
Sul fronte dell’offerta, oltre a un aumento dei vari prezzi di petrolio e materie prime a cominciare nel 2021, la questione più quantitativamente rilevante è presumibilmente la guerra in Ucraina. L’Europa risente di più di questo shock di offerta a causa della sua prossimità e maggior interdipendenza commerciale con Russia e Ucraina. Ad esempio, la questione del gas (che non significa solo riscaldamenti, ma anche produzioni industriali, fertilizzanti, eccetera) ha dato filo da torcere ai vari governi europei, mentre è meno rilevante negli Stati Uniti.
Al momento è difficile dire quanto pesano le conseguenze della guerra in Ucraina sull’inflazione. Ancora più difficile è prevedere quanto peseranno in futuro, a maggior ragione se si considera l’incertezza sugli sviluppi futuri della guerra.
Quello che è certo è che se questo elemento pesa e continuerà a pesare, l’Eurozona (e in particolare i paesi più commercialmente dipendenti dall’economia russa e ucraina) si troverà a fare i conti con inflazione alta e crescita bassa, ponendo la Bce di fronte a una scelta difficile su quale delle due prediligere (ricordo che la Bce ha come obiettivo primario quello della stabilizzazione dei prezzi). Le analisi più recenti non fanno ben sperare.
La Bce, e di conseguenza l’economia europea, si troverebbe quindi in una posizione più difficile rispetto alla Fed perché la componente di shock di offerta sembra essere relativamente maggiore rispetto agli Stati Uniti. Eppure, negli Stati Uniti, sono numerosi gli esperti e commentatori che prevedono una recessione entro fine anno o agli inizi dell’anno prossimo. Quindi, la situazione dell’Eurozona potrebbe essere ancora più problematica: il rischio che la recessione possa sommarsi all’inflazione elevata indipendentemente dalle azioni della Bce è reale. E per quanto la Bce possa intervenire, non potrà fare miracoli.
Debito pubblico e sistema bancario
In aggiunta, l’Europa si trova a dover affrontare una questione problematica che negli Stati Uniti è assente. Il debito pubblico è notoriamente un problema in alcuni paesi europei, in particolar modo in Italia.
Un aumento dei tassi di interesse, rende più costoso rifinanziare i debiti. Quindi, ogni volta che il governo si troverà ad aumentare il deficit o a dover rifinanziare prestiti arrivati a scadenza, si troverà di fronte a un costo maggiore. In più, l’aumento dei tassi di interesse da parte della Bce potrebbe scatenare un ulteriore aumento dei tassi di interesse sui titoli di Stato. Le azioni della Bce potrebbero aumentare negli investitori la percezione del rischio default. Potremmo sentir nuovamente parlare di spread, a maggior ragione in seguito alla crisi di governo che vede uscire di scena una figura che gode di un’ottima reputazione internazionale come Mario Draghi.
A preoccupare non sono solo le casse dello Stato, ma anche il sistema bancario. Infatti, chi possiede titoli di Stato, vedrebbe il loro prezzo calare con un aumento del tasso di interesse (esiste una relazione matematica precisa tra le due), comportando una riduzione del valore dei propri asset. Le banche italiane sono particolarmente esposte a questo rischio (qualcuna più, qualcuna meno): l’intero settore bancario italiano detiene più del 10% dei propri asset in titoli di Stato italiani, quota superiore a quella del periodo di crisi del debito sovrano, 2010-2012.
E se la Bce decidesse di non aumentare i tassi di interesse e di lasciar correre l’inflazione? Un’inflazione elevata erode il valore reale del debito. Ovvero, quando si manifesta un tasso di inflazione inaspettatamente alto, ne consegue una redistribuzione dal creditore al debitore: chi ha prestato riceverà indietro quanto promesso, ma si ritroverà di fronte prezzi più elevati del previsto. Chi invece ha preso in prestito, restituirà quanto pattuito, ma sarà un sacrificio più lieve del previsto siccome tale cifra consente di comprare meno beni e servizi di quanto ci si aspettava.
In questo caso, un tasso di inflazione elevato redistribuirà potere d’acquisto a favore dello Stato italiano e degli altri stati europei indebitati. A farne le spese saranno però i lavoratori con scarso potere nel rinegoziare i propri contratti, e i risparmiatori che detengono la loro ricchezza in beni liquidi (denaro contante, conti correnti, eccetera). Se la Bce decidesse di tollerare un tasso di inflazione alto, favorirebbe in primo luogo lo Stato italiano a spese dei lavoratori e risparmiatori di tutta l’Eurozona. Si tratterebbe di una questione politica non da poco; una mossa che andrebbe ad alimentare livori già esistenti, accrescendo i malumori per un’unione monetaria che già fomenta i vari populismi.
La Banca centrale europea si trova quindi ad affrontare una situazione ben più difficile rispetto a quella americana. Oltre a dover bilanciare inflazione e crescita di breve periodo in una condizione di maggior ristrettezza, la Bce deve preoccuparsi degli effetti delle sue azioni sul debito pubblico italiano e sul sistema bancario.
Per legge, La Bce deve sottostare al mandato che esplicita come obiettivo primario soltanto la stabilità dei prezzi. Detto ciò esistono anche obiettivi secondari, e il debito pubblico italiano è una rilevante questione di stabilità finanziaria, nonché fulcro di uno dei nodi politici irrisolti che anche il più tecnico dei tecnici faticherebbe a ignorare. Inoltre, una crisi italiana non avrebbe effetti solo in Italia, ma anche in altri paesi europei. La Bce presieduta da Mario Draghi, trovatasi ad affrontare una crisi del debito sovrano, ha dovuto prestare molta attenzione a questo tema, inventandosi nuovi strumenti che fecero persino sorgere dubbi di natura legale. Ma il problema non fu risolto, solo rimandato. Draghi comprò tempo affinché il governo italiano potesse lavorare per rimettere in sesto i conti pubblici.
Ma i vari governi italiani dal 2012 in poi non hanno approfittato del tempo concesso loro per rendere la situazione finanziaria del Paese più sostenibile. Complice la pandemia, l’Italia si ritrova con un rapporto debito Pil aumentato di più di 15 punti percentuali rispetto ad allora.
Vedremo presto come la Bce sotto guida Lagarde deciderà di gestire una situazione oggettivamente complicata. È vero che la Bce ha più strumenti rodati per gestire la situazione rispetto all’epoca. Ma anche in questo caso non si possono fare miracoli. E non è detto che Lagarde e la sua squadra abbiano la stessa clemenza e la stessa pazienza di Draghi. Inoltre, forse, qualcuno riuscirà a convincerli che sia ora di responsabilizzare gli irresponsabili.
Leggi anche:
Gli economisti sono ossessionati dal denaro?