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Splinternet | La balcanizzazione della rete ci ha già travolti

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Il frenetico susseguirsi di nuove tecnologie ha creato un mondo di opportunità. Le vecchie generazioni spesso hanno invidiato, neanche poi così segretamente, la capacità delle nuove di sperimentare software inediti e diventarne in breve tempo perfetti fruitori. In un mondo in costante espansione, che rincorre la novità un po’ per gioco e un po’ per dovere, si è finiti con l’ignorare la differenza tra utilizzare una tecnologia e comprenderne il funzionamento. Oggi abbiamo miliardi di utenti in rete, ma pochissimi sono consapevoli. Le persone accedono quotidianamente ad Internet ma solo una fetta estremamente ristretta, principalmente di addetti ai lavori, è in grado di comprenderne le dinamiche profonde, non tanto dal punto di vista tecnico quanto piuttosto da quello politico.

Mentre gli accessi alla rete sono in costante aumento, i mezzi di accesso sono drasticamente calati, oggi veicolati principalmente da un novero ristrettissimo di protocolli, app o motori di ricerca. È incredibile come solo un’insignificante minoranza sembri esserne consapevole.

Tramite un’analogia sorprendentemente coincidente con i secoli passati la Bell’Epoque dell’Internet si è conclusa tra il 2010 e il 2020. Dai suoi albori fino a quegli anni è stato un fiorire di pagine, domini, principati strettamente interconnessi, ognuno fruibile da chiunque senza passaporto. Dallo scorso decennio abbiamo visto imporsi sempre più ubiquitariamente registrazioni e gerarchie, responsabilità e steccati, che hanno condotto alle prime guerre di sistema per accaparrarsi i territori più ricchi di materie prime: le masse di utenti.

Oggi viviamo nell’era dei totalitarismi digitali. Tolto il China Firewall -che ha creato un sistema chiuso, controllato e in esponenziale espansione per un miliardo e mezzo di cittadini cinesi (più tutti gli eventuali turisti e residenti)- il free web è controllato da cinque grandi società, i Big Tech: Apple, Google, Facebook, Amazon e Microsoft. Fa specie dover leggere ancora paragoni tra Facebook e Twitter, tra Amazon e altri servizi di server e cloud computing, tra Google e altri motori di ricerca, come se potesse esservi una vera concorrenza. È indice di quanto poco consapevole sia l’utenza, convinta d’essere ancora dotata di un’enorme libertà di scelta. Solo chi lavora nel campo pare rendersene davvero conto, ma Internet è un luogo chiuso. Tutti i contenuti sono ancora tecnicamente liberi, ma solo ad una piccolissima parte di essi è concesso emergere -a vari livelli- dall’oblio.

Che questo abbia serie conseguenze politiche è abbastanza ovvio, che ne abbia anche di geopolitiche lo è meno. Ad aree diverse del pianeta corrispondono ambienti digitali completamente diversificati, frutto di un’intersezione tra regolamentazione pubblica e interesse privato, sempre però subordinati ad una cabina di regia.

Sotto la voce censura dell’enciclopedia Treccani troviamo “controllo, biasimo e repressione di determinati contenuti, idee o espressioni da parte di un’istanza dotata di autorità“, da notare che quest’autorità non debba essere necessariamente statale, sebbene fino al secolo scorso lo sia quasi sempre stata. L’Indice emanato dalla Chiesa Cattolica, ad esempio, si estendeva ben oltre i confini dello Stato Pontificio, seguendo l’autorità e l’influenza geografica della Chiesa stessa. Che i social esercitino una forma di censura quando cancellano determinati contenuti è abbastanza lampante, che lo facciano anche privilegiando alcuni contenuti rispetto ad altri, invece, lo è molto meno. Riconoscere poi che una forma di censura possa esistere anche in totale ottemperanza alle leggi vigenti e alla policy stessa del social sembra essere un concetto ormai riservato ai grandi pensatori.

È l’autorità che determina la censura. Il modo in cui viene calata è strettamente collegato all’area geografica di riferimento. Nel mondo libero sono le stesse piattaforme, con il loro immenso peso socio-economico, a decidere cosa sia giusto mostrare e cosa no. Non ci rendiamo minimamente conto di quanto standardizzati e targettizati siano i contenuti che visualizziamo. È una sorta di propaganda continua quella in cui siamo immersi online, non solo in termini di opinioni, ma soprattutto in termini di interessi. Anche nella divergenza di vedute siamo portati a ritenere importanti i soli argomenti a cui vorremmo conferire importanza. Costruiamo la nostra visione generale di società attraverso la rete, ma nel farlo siamo guidati da un enorme bias di conferma. Apprezzare appieno la complessità del sistema socio-economico diviene sempre più difficile, siamo ormai giunti ad una netta segmentazione generazionale e ideologica che ben presto diverrà anche ideativa.

Nel mondo ufficialmente non libero le cose vanno decisamente peggio, c’è da sottolinearlo perché spesso al fine di risolvere i problemi dell’informazione occidentale qualche idiota arriva a proporre il monopolio dell’informazione di Stato. Per ravvedersi basti pensare alla scorsa estate, quando il complesso sistema informatico della Repubblica Popolare Cinese è stato imposto permanentemente anche ad Hong Kong. Solo tramite l’impiego su larghissima scala di tecniche relativamente semplici e arci-note (IP blocking, DNS filtering, URL filtering e SSL MITM) da un giorno con l’altro sono stati resi inaccessibili Google, Youtube, Facebook, Whatsapp, Instagram, Direct, Telegram, Reddit, WordPress (su cui si appoggia il sito di Immoderati e quello del New York Times), Netflix, Prime Video e una marea di altre piattaforme e siti web incluse ovviamente quasi tutte le testate giornalistiche. Mettetevi nei panni di chi protestava.

Hong Kong è stata inglobata nel Great Firewall, un’enorme bolla composta da un miliardo e mezzo di persone pressoché incapaci di ricevere informazioni dall’ambiente esterno o peggio incapaci di accorgersi che tali informazioni siano pesantemente distorte e, di gran lunga la parte eminentemente distopica, assolutamente ignare di tutto. Anche del semplice fatto che un tale livello di controllo possa esistere. Non solo, l’introduzione del Great Cannon nel 2015 ha reso più difficile l’accesso alla rete cinese da parte degli utenti internazionali. Gli ostacoli non si incontrano quindi solo guardando fuori dalla muraglia, ma anche cercando di guardarvi all’interno. Ci troviamo di fronte alla più grande operazione d’intelligence mai condotta nella Storia e, visti i numeri e la forza del gigante asiatico, viene da chiedersi se gli esclusi siamo noi o loro.

Consentitemi una parentesi personale: di tutti i viaggi che ho fatto quello in Cina è stato senza dubbio il più sconvolgente. Attraversare la Gongbei Port, il confine terrestre che separa Macao e la Cina Mainland, fu un’esperienza mistica. È come entrare in un’altra dimensione, più che una porta sembra d’aver attraversato un portale. Di colpo i telefoni smettono di funzionare, cominciano a inviare e ricevere enormi pacchetti di dati, rallentano, le batterie si scaricano prematuramente e nel giro di pochi minuti, mentre si è in genere presi a superare i rigorosissimi controlli alla dogana, il firewall identifica la minaccia straniera, la isola e costruisce intorno ad essa una nuova realtà digitale, confezionata per l’occorrenza. Niente calendario, niente mail, niente messaggi, niente mappe, niente app store. Le parole Google e Facebook non compaiono più, se non di rado, grazie all’utilizzo di una solida e aggiornata VPN, ma talvolta non basta e non resta che arrendersi all’idea di censura. Un software formidabile, bisogna ammetterlo.

Dall’altra parte della muraglia Huawei viene bannata dagli Stati Uniti, le aziende high-tech cinesi come Dji e Xiaomi vengono sempre più messe in difficoltà dalla legislazione americana e la Black List aumenta di mese in mese. Mentre l’epoca dei totalitarismi digitali rafforza la visione dualistica dello splitted internet le avvisaglie di guerra sono già alle porte e gli Stati iniziano a schierarsi. Alcuni mirano solo a sfruttare la situazione per ritagliare la propria fetta di web: non è un segreto che Erdogan stia cercando un accordo per lo sviluppo di una branca turca e a partecipazione governativa di Facebook, così come è risaputo che VKontakte sia tenuto in scacco dal governo russo.

Ci accorgiamo che la balcanizzazione della rete è già in atto. Dopo decenni di connessione e globalizzazione ci attende uno stop deciso e un ritorno dei sovranismi, anzitutto digitali e poi a seguire. Nell’era dell’informazione e degli stage a Shanghai -complici anche le barriere linguistiche spesso sponsorizzate- le distanze tornano ad allungarsi mentre assistiamo al ricostruirsi di mondi lontani e inaccessibili.

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