“Quando arriverà il momento torneremo a casa” è il titolo della canzone in lingua kinyarwanda che risuona mentre scende la sera sopra la monotona quotidianità di un campo profughi in Congo. La melodia è la traduzione in musica di un disagio che queste migliaia di rifugiati condividono. È la consapevolezza che la vita nel campo non è solo una condizione temporanea, è l’inizio di un lungo viaggio con destinazione ed esito ignoti. Tra le voci che si levano nell’aria ve ne è una particolarmente limpida e sonora, è quella di una bambina di soli tre anni di nome Misa.
Incontro Misa – nome fittizio, siccome preferisce non rivelare la sua identità – negli Stati Uniti dove ora si è felicemente stabilita. La sua storia, però, è molto diversa da quella dei suoi colleghi: è nata nel 1991 in Ruanda in una famiglia numerosa. Nel 1994 suo padre rimane vittima del genocidio e la loro abitazione non è più un luogo sicuro. A causa di questo Misa, insieme al resto della sua famiglia, viene trasferita in un campo profughi in Congo. La tenda che viene affidata loro amplifica la nostalgia di casa: al suo interno solo alcuni materassi appoggiati sulla nuda terra. Niente di ciò che noi colleghiamo al concetto di casa è presente nella tenda. Il campo profughi era gestito dall’Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite, dall’UNICEF e dalla Croce Rossa. Nonostante questo, i profughi non avevano accesso all’acqua potabile. Si recavano presso il lago Kivu per abbeverarsi, ma lo stesso specchio d’acqua era usato per urinare, defecare e lavare i vestiti. L’assenza di acqua pulita portò il colera, molti si ammalarono e morirono. Non vi erano medicinali a disposizione, l’intero campo dipendeva dagli aiuti stranieri, ma la scarsità di strade agibili rendeva difficile il rifornimento. È difficile comprendere l’assenza di acqua potabile se si considera che la gestione del campo era affidata ad organizzazioni internazionali con grande fama e mezzi a disposizione. Misa, a tre anni, si ammala di colera. Sua madre è disperata, non può fare affidamento sulle medicine e perciò tenta di fare quel poco che è in suo potere. Prende dell’acqua dal lago, la fa bollire e aggiunge sale. Tale preparato viene offerto a Misa che a fatica lo deglutisce, riuscendo così ad evitare la disidratazione e, dopo due lunghissime settimane, guarisce. Il cibo, che consisteva esclusivamente in farina di mais, riso e fagioli in scatola, non era sufficiente. Le razioni erano assegnate in base al numero di componenti di ogni nucleo familiare. Per questo motivo molte madri facevano finta di avere più figli, arrotolando vestiti sotto le coperte o addirittura prendendo in prestito i figli di qualcun altro.
In una soleggiata mattina domenicale Misa fa quello che ha sempre fatto da quando è arrivata al campo: si prepara per andare a Messa. Questa particolare mattina però Misa è in ritardo, si sta divertendo a lanciare fiori sul tetto della tenda e a riprenderli mentre, scivolando, tornano indietro. I suoi coetanei si uniscono a lei nel gioco e condividono questo momento di spensieratezza. Sua madre arriva e urla: “veloci a prepararvi o faremo tardi!”. In quel preciso momento il rumore dei colpi di mortaio scuote l’aria. Misa e la sua famiglia corrono all’interno della tenda, si vestono come possono, indossano le scarpe, mettono in valigia ciò che ritengono indispensabile e scappano. Nella fretta, Misa non riesce ad indossare la biancheria intima. Insieme agli altri profughi si dirigono verso un’altura che conduce alla foresta. Dopo anni di distanza Misa ritiene che coloro che avevano attaccato il campo profughi fossero le truppe Tutsi di Kagame. Paul Kagame, attuale presidente, usando come scusa il fatto che alcuni soldati Hutu si nascondessero tra i rifugiati, attaccò molti campi profughi in Congo per realizzare la pulizia etnica degli Hutu. Queste sue convinzioni non sono semplicemente intuizioni, ma derivano da un attento studio e raccolta di dati che Misa ha eseguito nel corso della sua adolescenza per ricollegare i suoi ricordi agli avvenimenti storici. Tratteremo più a fondo questo argomento in un articolo successivo.
La madre di Misa corre in salita portando con sé le valigie, ma la sua asma non le consente di respirare regolarmente. Sotto il peso della fatica scivola dal pendio e, rotolando, si ferma vicino ad un ruscello. Misa le corre incontro e la raggiunge. Dopo la caduta volgono lo sguardo all’altura e vedono i profughi in fuga mentre vengono uccisi dai colpi di mortaio. Tre uomini armati con piccole asce e senza identificazione si avvicinano a loro porgendo la fatidica domanda: “Siete Tutsi o Hutu?” La madre di Misa è paralizzata dalla paura, non sa cosa replicare, una risposta in un senso o nell’altro può significare la differenza tra la vita e la morte. Dopo alcuni istanti replica: “Mi trovavo nel campo profughi, se ci aiutate a risalire l’altura là troverete persone che potranno confermarlo”. I tre uomini, soddisfatti dalla risposta, prendono le valigie e aiutano la famiglia nella salita. Alla luce dei fatti, Misa ora ritiene che quegli uomini facevano parte di quei soldati Hutu che si nascondevano nel campo profughi.
Insieme ai rifugiati sopravvissuti Misa e la sua famiglia iniziano un lungo cammino attraverso la foresta equatoriale. La preoccupazione maggiore è distanziarsi il più possibile dai soldati che li stanno inseguendo. Per tre giorni e per tre notti il gruppo cammina senza sosta per tenersi in vantaggio. Senza cibo e senza acqua, con il caldo e l’umidità che incombono, l’incedere è davvero difficoltoso ed estenuante. È in questo momento che Misa nota molte persone morire al lato della strada. Qui la differenza tra la vita e morte è data dalle scarpe. Chi possiede calzature, come Misa e la sua famiglia, ha qualche possibilità in più di cavarsela. Gli altri tentano di arrotolarsi i vestiti ai piedi per proteggerli. Dopo un po’, però, stremati e con un dolore ai piedi che diventa insopportabile, si lasciano cadere e sul ciglio aspettando la morte. Solitamente le organizzazioni internazionali utilizzano il satellite per individuare i profughi che si spostano e mandare i loro aiuti. All’interno della foresta, però, questo gruppo rimaneva invisibile. In aggiunta, la comunità internazionale non era informata del fatto che le truppe di Kagame inseguissero sistematicamente i profughi in fuga.
Ad un certo punto il gruppo raggiunge un villaggio. Il luogo è deserto, solo pile di cadaveri davanti alle capanne. Tutti entrano nelle abitazioni per mangiare gli avanzi che trovano, ma praticamente niente è rimasto. Il cammino riprende, vi è mancanza di cibo e di acqua. Il colera si abbatte nuovamente sulla comitiva. Le zanzare della foresta portano la malaria. Girando lo sguardo Misa nota una donna che sta dando alla luce un bambino sul lato della strada. Tutti passano senza interrompere il cammino. Sua madre si ferma, vuole aiutarla. Un uomo però la prende e la avverte che se si ferma morirà, non può perdere contatto con il gruppo. È a questo punto del racconto che Misa si interrompe e, guardandomi, mi dice: “è così che ho scoperto come nascono i bambini”.
Durante il viaggio il gruppo attraversa alcuni villaggi di Pygmy, tribù di indigeni locali abitanti della foresta che impauriti dalla mole della comitiva che procede, abbandonano le loro capanne. Entrando nel villaggio i profughi possono finalmente trovare un po’ di cibo. Gli indigeni però, dopo essersi allontanati dalle loro abitazioni, si nascondono in mezzo alla foresta ed iniziano a prendere di mira i profughi con dardi avvelenati. Misa cammina guardando la madre che trasporta un bambino piccolo in spalla. In quel momento vede una freccia che passa esattamente nello spazio tra la testa della madre e quella del bambino. Il dardo finisce la sua corsa conficcandosi sul braccio dell’uomo che cammina di fianco a loro. Corrono a chiamare un dottore che conferma che la freccia è avvelenata. Misa non ebbe più notizie di quell’uomo.
La cosa che tra tutte mi stupisce di più è la quantità di dettagli che Misa ricorda della sua esperienza, quando aveva soli tre anni. Per la maggior parte di noi, i primi ricordi abbastanza dettagliati risalgono all’età di 6 o 7 anni. Questa è la prova più tangibile della drammaticità dell’infanzia di Misa.
1 comment
E c’è chi ancora oggi alza cortine di filo spinato, come se essere vittime di guerra fosse una colpa.
Dovremmo prendere esempio dal Libano, che ha accolto (non senza problemi) una mole di profughi pari a un quarto della propria popolazione.