Le guerre rappresentano dei punti di arrivo per alcuni percorsi storici destinati a terminare ma, contemporaneamente, esse rimangono dei punti di partenza, in quanto il loro esito determina nuovi equilibri, nuove realtà e nuovi percorsi.
Malgrado quindi la mia passione per la storia sociale ed economica, ritengo che la storia militare sia sempre il punto di partenza per un’analisi politica e socioeconomica seria, poiché le guerre ci donano gli indizi fondamentali di quelle contraddizioni profonde che possiamo in seguito esaminare e sviluppare nei vari campi. Seguendo il filo delle cause e dello svolgimento di una guerra scopriamo condizioni e dati riguardanti le società coinvolte e i loro rapporti che altrimenti rimarrebbero sconosciute ai più. Questa conoscenza ci rende ancora più perspicaci e capaci di cogliere gli squilibri e i punti potenzialmente di maggiore tensione che, a prima vista nel contesto dominante di un certo periodo, possono non sembrare tali.
Dunque la più malefica funzione del pacifismo (almeno nella sua versione infantile di intendere le guerre come dei meccanismi di violenza cieca, privi di intelligenza, eleganza e fascino, dovuti a scelte arbitrarie di cattivi capi vanagloriosi a scapito di poveri popoli innocenti) è che allontana dallo studio del fenomeno sociale più estremo e drammatico, quindi indispensabile per una comprensione migliore della condizione umana e dei rapporti internazionali. Ma, oltre alla sua importanza accademica fondamentale, credo che il ritorno alla Storia militare e gli Studi strategici rappresenti oggi anche una necessità politica. Le classi dirigenti occidentali attuali sono state formate nell’ambito di una supremazia indiscussa nel mondo, cosa che aveva permesso alle loro istituzioni e princìpi di apparire come potenzialmente globali. Questo ha contribuito enormemente alla creazione di un’illusoria onnipotenza istituzionale, alimentata anche dal fatto che tutti furono costretti ad adattarsi al linguaggio occidentale. Quel periodo storico è finito.
L’avvento di diverse potenze non-occidentali, e il loro allontanamento sempre più evidente e radicale dalle istituzioni cosiddette internazionali, rende il modo burocratizzato di pensare e agire superato e fuori luogo. L’incapacità delle classi dirigenti burocratiche di rispondere alle sfide del mondo moderno (multipolare, instabile e conflittuale) diventa sempre più manifesta e porta le nazioni occidentali a cercare istintivamente appoggio a personaggi politici atipici, i quali mostrano, seppur in modo brusco, caratteristiche di vera leadership: decisione, risolutezza, coraggio di fronte alle banalità politicamente corrette, disprezzo per i labirinti burocratici. Questa sacrosanta reazione, però, non potrà concretizzarsi senza l’apparizione di futuri “personaggi atipici” che, oltre a quanto detto, dovranno essere anche preparati, educati, teoricamente istruiti, stilisticamente eleganti e, speriamo, geniali: a Roma non fu sufficiente Gaio Mario, ci volle Giulio Cesare. E, come fu per lo stesso Cesare, non può esistere figura maggiormente ispirante e carismatica di quella di Alessandro Magno.
Napoleone una volta disse che Alessandro era stato fortunato perché morì presto evitando così i fallimenti nei quali, prima o poi, sarebbe incorso e passando alla storia come un astro giovane e brillante. Nel libro “Alessandro Magno e pensiero strategico moderno” (Edizioni Saecula, 2020), tratto dalla mia tesi di laurea magistrale all’Università di Bologna nel 2013, cerco di dimostrare come il giovane Alessandro eccellesse rispetto all’imperatore perfino sotto un piano propriamente strategico. E che la teoria strategica moderna, di cui modello è sempre Napoleone Bonaparte e suo massimo esponente è Karl von Clausewitz, avrebbe molto da apprendere dall’esempio di Alessandro Magno.
Cliccando al seguente link è possibile vedere la mia presentazione del libro per la Bookcity Milano 2020.