Lavorare con i numeri è il mio mestiere, ma, oggi, non ho cifre da sottoporvi: questo è un articolo senza numeri.
Per Noa Pothoven non si è trattato di eutanasia, ora sembra essere chiaro.
Era, semplicemente, un dramma umano.
Un dramma che ci impone di fare due riflessioni: la prima sullo stato in cui versa l’informazione e la seconda sull’umiliazione a priori della libertà individuale.
Non deve passare inosservata la nefandezza, umana e professionale, delle testate giornalistiche che hanno prima urlato allo scandalo e poi successivamente, accortisi di aver sostenuto il falso, hanno sostituito i propri articoli senza una riga di pubbliche scuse, nell’ombra e nel silenzio, come se non fossero mai stati scritti, come se non ne fossero stati loro gli autori.
Inoltre, nella sostituzione, le testate più meschine hanno anche recitato la parte di quelli stizziti contro le notizie non reali circolate nella mattina. Sì, avete capito bene: prima riportano il falso, con tanto di indignazione pubblica e pubblica ramanzina contro “l’eutanasia fatta su minorenni depressi”, poi sostituiscono gli articoli scritti e puntano il dito sulla mala-informazione.
Roba da matti? Esatto, roba da Avvenire, e non solo. Una menzione particolare va infatti al quotidiano della Cei, benchmark che io uso per monitorare fin dove si può arrivare nei casi peggiori, un esempio di grettezza e abiezione, il giornale che mi infliggo quando voglio punire me stessa per l’imperdonabile colpa di vivere ancora in questo Paese.
C’è da dire, mi correggerete, che la fake news costruita sulla pelle di una tragedia umana non è stata solo uno scivolone italiano ma anche degli inglesi, degli australiani e degli indiani. Dovrebbe rassicurarci il fatto di non essere gli unici cialtroni ma di essere in buona compagnia? Non credo proprio.
E, anche se vi ho detto che oggi non avrei sciorinato numeri, arrivati a questo punto, mi preme porre l’attenzione sulle proporzioni. Cosa c’entrano le proporzioni con l’eutanasia?
Il mio professore di Analisi Matematica ripeteva continuamente che la vita è fatta di proporzioni, e che quando la gente fa le proporzioni, e scopre che non sono rispettate, nascono le rivoluzioni.
Io me lo auguro, e per questo vi racconto una storia.
Mi capita qualche settimana fa di conoscere una coppia di ragazzi di trent’anni, appartenenti a un movimento religioso, sposati da tre anni con 2 figli piccoli e ora in attesa del terzo.
Chiacchierando, mi spiegano che, al bambino che stanno aspettando, è stata diagnosticata l’anencefalia, una grave malformazione del tubo neuronale, incompatibile con la vita. I medici concordano sul fatto che il feto non potrà sopravvivere. La gravidanza può evolvere in un aborto spontaneo, oppure nel caso in cui si arrivi al termine della gestazione e il neonato sopravviva al parto, entro pochi secondi o minuti, nei casi migliori giorni, comunque morirebbe. I due genitori, però, hanno deciso di non abortire, e di portare a termine la gravidanza, per “rispetto verso la vita” mi dicono.
Considerate che, in caso di patologie incompatibili con la vita, persino i medici obiettori di coscienza non sono contrari all’aborto.
Ciononostante, i due genitori hanno già assegnato un nome al bambino, comprato il fiocco blu, spiegato agli altri due figli che avranno un fratellino che però non potrà stare con loro, partecipato a seminari e catechesi in cui portano la loro esperienza a “testimonianza dell’amore di Dio”, incitando altre coppie nella loro stessa situazione a comportarsi nello stesso modo. Insomma, proseguono la loro vita secondo i loro principi e il loro credo.
Ora, io voglio scindere tre aspetti in questa situazione.
Da una parte, l’enorme dispiacere che è umano provare per genitori di bambini a cui viene diagnosticata una malattia fatale. Dolore con il quale non posso che essere solidale ed empatica.
Dall’altra, il dubbio se tale ostinazione verso la vita possa essere o meno dolorosa verso il feto. Se lo consideriamo un essere umano a cui non si può sottrarre la vita, e sosteniamo che le malattie incompatibili con l’esistenza non impediscano al bambino di sentire l’amore, ci siamo anche chiesti se gli impediscano di sentire dolore, disagio? Se lo stiamo condannando, anche per pochi giorni, a una sofferenza che lo condurrà poi inevitabilmente alla morte? Se non ce lo siamo chiesti, chiediamocelo. Perché come non si può che immaginare cosa provi una ragazza adolescente vittima di abusi e di depressione, non possiamo nemmeno immaginare se una patologia come l’anencefalia provochi tormento.
Infine, c’è l’enorme sdegno morale con cui mi trovo a fare i conti. Sdegno, non tanto per la decisione di proseguire con una gravidanza in queste situazioni, sebbene non ne condivida la ratio e anzi sia convinta che casi come questo siano non amore ma “accanimento verso la vita”, quanto perché non è accettabile che alcuni abbiano la libertà di agire secondo la loro, propria, intima e discutibile morale, e altri no.
E qui, intervengono le proporzioni.
A : B ≠ C : D
Le decisioni discutibili sulla vita di taluni stanno alla legge italiana come le decisioni discutibili sulla vita di altri NON stanno alla legge italiana.
Perché una scelta estrema come il portare a termine una gravidanza di un feto che non potrà vivere rientra nelle scelte ammissibili dallo Stato, mentre la scelta di una persona che per “n” motivi, fisici o psicologici, decide di non volere più vivere non lo è?
In entrambi i casi si parla di vita e di morte, entrambe le decisioni sono interiori, individuali e, in quanto tali, non soggette al principio di falsificabilità. In poche parole: non ci potete mettere bocca.
Se vogliamo trovare una differenza, in caso di eutanasia e suicidio assistito la decisione è della persona per la propria vita; nel caso della gravidanza del feto morente portata a termine la decisione è di un genitore in merito alla vita di un’altra persona.
Perché alcuni sono liberi di perseguire la propria volontà, su scelte profondamente private come la concezione della vita e della morte, e altri no?
Chi ha deciso qual è il giusto approccio alla morte? Chi, e in nome di quale morale o religione, decide che ci sono morti di serie A e morti di serie B?
No, caro Jorge Mario Bergoglio, eutanasia e suicidio assistito non sono una sconfitta.
La sconfitta è la proporzione non rispettata.