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Brexit e qualità della democrazia

ca8bb3f753966da5721e568bba759439Con il 52% scarso dei voti a favore, il fronte “Leave” è uscito vincitore dal referendum indetto sul futuro della membership britannica nell’Unione europea. Le conseguenze pratiche del voto restano per il momento incerte, dato che il referendum non ha un valore giuridicamente vincolante per il Governo o per il Parlamento e, anche se venisse confermato in sede assembleare, ancora per lungo tempo non sarà possibile definire un quadro chiaro dei futuri rapporti tra Regno Unito e Unione europea. Rimando a questo articolo di Giovanni Caccavello per una sintetica e chiara disamina di alcune opzioni. Qui intendo svolgere alcune riflessioni sul nesso tra il referendum sulla Brexit e il futuro della democrazia dell’Unione.

Naturalmente, i leader di partiti euroscettici e di stampo nazional-isolazionista, su tutti il Front National francese e la Lega Nord italiana, non hanno perso tempo a festeggiare l’esito del voto – accolto come una tanto attesa espressione di libertà di popolo – auspicando al contempo analoghi sviluppi nei propri rispettivi Paesi. Come prima cosa, è quantomeno curioso che gli attuali acerrimi oppositori del liberismo e del liberalismo costruiti in oltre 60 anni di integrazione europea esultino di fronte a una tale “fiera manifestazione di libertà”, come quella che a loro dire si sarebbe avverata nel Regno Unito. Ma tralasciamo questo aspetto.

Il messaggio più potente implicitamente diffuso dai sostenitori del “Leave” dentro e fuori la Gran Bretagna è che questa vittoria è la vittoria della democrazia, della libertà di espressione popolare svincolata dal giogo della burocrazia irresponsabile, della sovranità esercitata dalla “real, ordinary and decent people” (per citare il recente commento di Nigel Farage) contro un’Europa, a detta di costoro, democraticamente deficitaria. Ora, in Gran Bretagna il “Leave” non ha vinto precisamente perché 52 elettori britannici su 100 sono scontenti di come funziona la democrazia in Europa. Certamente temi più “tangibili” hanno direttamente influenzato il voto. Tuttavia, la questione della democrazia europea e il voto per la Brexit non sono elementi slegati, bensì fortemente connessi e con implicazioni per tutti i membri dell’Unione.

Unione e deficit democratico

Non è recente il dibattito che si è sviluppato intorno al cosiddetto “deficit democratico” nell’Unione europea. Le posizioni di giuristi e scienziati politici sul punto sono molto differenziate, ma l’opinione di chi ritiene che vi sia un deficit di democrazia in Europa si può sostanzialmente riassumere così: i principali centri di decisione delle politiche comunitarie fanno capo ad istituzioni i cui componenti non hanno una sufficiente legittimazione proveniente dal voto popolare; il decision-making europeo procede slegato dalla volontà maggioritaria dei cittadini, l’Unione funziona come un organo privo o non sufficientemente provvisto di sovranità popolare.

Ora, prendiamo come esempio la questione migratoria. Senz’altro il tema ha riscosso un forte successo durante la campagna referendaria, concentrandosi sia sugli aspetti dell’immigrazione nel Regno Unito di cittadini comunitari, sia (sic!) sugli aspetti – di rilievo giuridicamente quasi irrilevante ai fini del voto – dell’immigrazione di cittadini extra-comunitari. Riguardo al primo aspetto, la legislazione che influenza la materia è in parte di tipo pattizio (disposizioni di Trattati), e in larga parte di tipo c.d. derivato, ossia adottata dalle istituzioni europee ai sensi dell’art. 294 TFUE. Riguardo al secondo aspetto, è sotto gli occhi di tutti che l’Europa fatica a decidere e ad operare con una sola “voce” in politica estera, specialmente nell’ambito delle azioni volte a controllare l’immigrazione da Paesi terzi; ma soprattutto perché? Perché la politica estera non figura ancora tra le politiche interamente “comunitarizzate”, ossia implementate con un metodo maggioritario che impedisca alle sovranità dei singoli Stati di esercitare un veto.

Per entrambi gli aspetti, una critica che viene spesso mossa è che manca una vera partecipazione dei cittadini all’adozione delle norme europee, critica che si espande a tutta la legislazione sul mercato interno di cui la normativa sulla circolazione delle persone è parte integrante. Per quanto riguarda il mercato interno, però, le critiche sulla mancanza di democrazia vanno sensibilmente ridimensionate alla luce di alcuni, semplici fatti: primo, la legislazione in materia viene adottata dal Consiglio (formato dai ministri competenti per materia dei rispettivi governi, eletti in base alle procedure democratiche di ciascun Paese) e dal Parlamento (che detiene pari poteri ed è direttamente eletto dai cittadini); ciò avviene su proposta della Commissione, la quale è vero che non è eletta, ma la sua nomina dipende direttamente a) dalle scelte dei leader politici nazionali, e b) dai risultati alle elezioni del Parlamento europeo. In quest’ottica, l’inclusione della intera politica estera europea tra le aree di policy che funzionano come quella del mercato interno, farebbe sì che in politica estera si deciderebbe con un metodo molto più democratico di quello che in realtà si crede.

Domanda provocatoria: quanti di coloro che hanno votato ieri – e voterebbero in altri Paesi oggi o domani – sono in grado di dire come funziona il processo decisionale tipo nell’Unione? Tale domanda conduce ad affermare che, anche ammettendo di pretendere una partecipazione più attiva e influente dell’elettorato nella definizione delle norme europee, non ci si può non confrontare con la qualità che questa scelta democratica potrebbe attualmente garantire. Il maggior coinvolgimento attivo dei cittadini implica che la consapevolezza e l’informazione detenuti da ogni singolo individuo conteranno di più rispetto a prima; nei due sensi, però: ossia, meno consapevolezza e informazione si hanno, peggiore sarà la qualità dell’apporto democratico alla decisione, peggiore sarà (con tutta probabilità) l’esito della decisione stessa. Ecco, io penso che una prima analisi del voto britannico possa far sviscerare alcune riflessioni su che tipo di democrazia è lecito volersi (non doversi) aspettare in Europa.

Stando ai dati demografici del referendum, hanno votato per l’uscita dall’UE il 61% dei votanti con più di 65 anni e il 54% di quelli con età compresa fra i 50 e i 64 anni. Al contrario, il 75% dei giovani tra 18 e 24 anni ha votato “Remain”, seguito da un più tiepido – benché netto – sì alla permanenza da parte della fascia d’età 24-49. In sintesi, la fetta più anziana della popolazione britannica ha svolto un ruolo decisivo nel far pendere la bilancia a favore del “Leave”.

Qualità della democrazia nel referendum britannico

Se si guarda alle motivazioni che le formazioni politiche sostenitrici del “Leave” hanno messo in campo, esse hanno fatto leva principalmente sulla necessità per i britannici di riprendere il totale controllo del proprio Paese di fronte ai presunti danni alla sicurezza sociale derivanti dall’afflusso di lavoratori e studenti comunitari (danni infondati, visto il contributo netto che tali categorie portano al budget pubblico britannico); alle massicce correnti migratorie extra-comunitarie (che la Gran Bretagna però può già gestire in autonomia godendo di particolari deroghe nel diritto comunitario dell’immigrazione); alle cifre – distorte – riguardanti le contribuzioni finanziarie del Paese al budget comunitario (dal quale peraltro deriva importanti benefici); alla minaccia – del tutto remota – che la Turchia possa diventare un membro dell’UE a tutti gli effetti.

Il tutto senza che venisse fornita un’alternativa disamina del futuro del Paese nell’attuale mondo globalizzato in seguito all’abbandono della membership comunitaria. Insomma, la campagna pro “Leave” ha fatto presa su motivazioni irreali e sul programmatico incentivo all’irrazionalità e all’assenza di argomentazioni a lungo termine. Di nuovo: quanti di coloro che hanno votato sono in grado di esprimere opinioni sui temi precedenti che vadano al di là degli slogan referendari?

Quindi, a quale vittoria della democrazia dobbiamo esultare? Abbiamo appena assistito ad una manifestazione di democrazia in cui una consistente fetta di popolazione, in età avanzata, che subirà le conseguenze della decisione referendaria per un numero di anni molto ridotto rispetto a quello che aspetta i più giovani, ha determinato il successo di un voto pericoloso per questi stessi giovani. Abbiamo assistito ad una manifestazione di democrazia in cui il 52% degli elettori ha dimostrato di decidere il futuro del proprio Paese dando seguito a una campagna di informazione sensazionalistica e suffragata – quando lo è stato – da dati sconnessi dalla realtà, da argomentazioni incapaci di tener conto di fattori oggettivi. Abbiamo assistito, insomma, ancora una volta, a una manifestazione di democrazia dettata dalle opinioni distorte e irrazionali della fetta di elettori che ha meno da perdere da un’eventuale decisione sbagliata. Certo, non scopriamo nulla di nuovo. Il voto democratico moderno si è sempre dimostrato affetto da simili difetti. Tuttavia è un evento molto significativo perché viene da un Paese tradizionalmente considerato come il baluardo della democrazia “sana”, dove il populismo ha spesso fatto fatica ad attecchire.

Se un Paese come la Gran Bretagna si dimostra capace di votare male, esasperando i due maggiori limiti del “compromesso” democratico di età moderna (distribuzione demografica del voto e istruzione dell’elettorato), c’è da chiedersi se sia questa la democrazia che a gran voce si richiede venga iniettata a forza nel sistema decisionale europeo. Volendo colmare il presunto deficit democratico, tralasciando come veramente oggi funziona il processo decisionale comunitario, vogliamo davvero che ciò avvenga col rischio di provocare un’epidemia di potere popolare esercitato irrazionalmente e senza competenze, perché comunque ciò che basta è dare espressione incondizionata alla sovranità popolare? Insomma, vogliamo davvero che l’efficacia della decisione soccomba dinanzi al mero formalismo di un principio?

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