Si celebra oggi l’anniversario dei 70 anni della liberazione dall’occupazione nazifascista. Una ricorrenza che come sempre in Italia rinfocola gli scontri e le polemiche tra antifascisti in servizio permanente e chi invece si rifiuta di riconoscere valore a tale ricorrenza.
Sono stati molti in questi giorni gli storici che hanno sottolineato la mancanza di concordia che si accompagna alla celebrazione di questa giornata rievocativa. È ciò che ci differenzia in negativo da paesi come la Francia o gli Stati Uniti, dove l’unità nazionale si poggia su valori condivisi e nei quali questo tipo di celebrazioni storiche sono molto sentite dalla popolazione (di qualunque orientamento politico).
Le ragioni di questa disaffezione a quello che dovrebbe rappresentare un momento di condivisione di valori comuni sono varie; la principale tra queste è che il 25 aprile viene vissuto ancora oggi non come patrimonio di un’intera nazione, ma come appannaggio di una fazione politica.
Durante gli anni della Prima repubblica le forze di sinistra attuarono una vera e propria mitizzazione della resistenza (e della Costituzione, che ne fu il principale portato storico). La resistenza assurse nella retorica pubblica a mito fondante della Repubblica e dell’identità nazionale, secondo i valori dell’antifascismo.
Ma come spesso succede la storia nella realtà si discosta dalla rappresentazione retorica che di essa viene fatta.
Innanzitutto la resistenza fu un movimento estremamente elitario. Secondo gli studi di Guido Quazza, il maggiore storico del fenomeno resistenziale, il numero totale di partigiani che presero parte alla guerra di liberazione si aggira attorno ai 230.ooo uomini, di cui solo 125.000 vi presero parte continuativamente; e l’Italia contava all’epoca più di 40 milioni di abitanti.
Il movimento partigiano fu egemonizzato dalla componente comunista, che ne costituiva la maggioranza, e che pagò il più alto tributo di sangue (più di 50.000 morti). È indubbio che molti tra loro combattessero per affermare in Italia un regime politico di “democrazia proletaria” secondo il modello sovietico staliniano (una rivoluzione comunista era tuttavia impossibile vista la presenza sul territorio italiano dell’esercito anglo-americano). Così come la storiografia tende oggi a considerare la svolta di Salerno, con cui Togliatti nel ’44 abbandonava l’opzione rivoluzionaria e accettava il sistema democratico, come una mossa eminentemente tattica impostagli da Stalin volta a legittimare il partito comunista come forza di governo.
Il secondo gruppo più numeroso era quello composto dagli azionisti delle brigate giustizia e libertà, che espresse il comandante capo delle formazioni partigiane Ferruccio Parri; seguito dai socialisti sotto l’egida di Pietro Nenni.
Gli altri due principali partiti antifascisti, la Democrazia Cristiana e il Partito Liberale, dettero un contributo molto marginale nel corso della resistenza (quasi irrilevante nei primi mesi).
È storicamente acclarato che la liberazione del Paese dal nazifascismo avvenne sostanzialmente grazie all’esercito anglo-americano e che la resistenza non costituì mai un fattore decisivo. Detta in altri termini: se il compito di liberare il paese dall’oppressione nazifascista fosse stato affidato alla sola resistenza partigiana, questo non sarebbe potuto avvenire.
Accanto alla guerra di liberazione nel periodo tra il 43 e il 45 ci fu una vera e propria guerra civile.
La guerra civile tra le due Italie fu cruenta e drammatica, numerosi furono gli eccidi e le violenze perpetrate dai nazifascisti contro i civili. Sono state accertate circa 400 stragi, compiute con la correità dei fascisti (le più truci, è noto, si verificarono a Marzabotto, alle Fosse Ardeatine, a Sant’Anna di Stazzema).
Considerando solo i membri attivi della resistenza (come detto circa 100.000 persone), i morti furono 35.000, 21.000 i mutilati, 9.000 i deportati in Germania.
Nella sua storia d’Italia Paul Ginsborg racconta che con l’amnistia di Togliatti si introdusse una capziosa “distinzione (…) tra torture “normali” e “sevizie particolarmente efferate”. Con questa formula i tribunali riuscirono ad assolvere crimini quali lo stupro plurimo di una partigiana, la tortura di alcuni partigiani appesi al soffitto e presi a calci e pugni come un sacco da pugile, la somministrazione di scariche elettriche sui genitali attraverso i fili di un telefono da campo. Per quest’ultimo caso la Corte di Cassazione stabilì che le torture “furono fatte soltanto a scopo intimidatorio e non per bestiale insensibilità come si sarebbe dovuto ritenere se tali applicazioni fossero avvenute a mezzo della corrente ordinaria.”
Anche alcuni partigiani (tutti riconducibili al partito comunista) si resero protagonisti, a guerra conclusa, di uccisioni efferate e indiscriminate di fascisti e non (si parlò a questo proposito di “triangolo della morte”). La strage di Porzus rimane l’episodio più noto della resa dei conti all’interno della resistenza: nei pressi di questa località una ventina di partigiani delle formazioni Osoppo (cattolici e azionisti) vennero brutalmente uccisi da un centinaio di partigiani comunisti.
Perché si potesse parlare apertamente di guerra civile senza suscitare scandalo (nel campo della sinistra) bisognerà aspettare la pubblicazione nel 1991 di un testo fondamentale di un autorevole storico di sinistra come Claudio Pavone: “Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della resistenza”. Da parte della sinistra comunista, che si era attribuita il ruolo di custode dell’ortodossia della “memoria della resistenza” tale nozione fu accolta con grande ostilità perché adoperata in passato dalla tradizione neofascista oltre che da un giornalista intellettualmente libero come Indro Montanelli. È molto significativo che per imporsi in sede storica ogni tesi storiografica deve passare il vaglio della sinistra intellettuale, perché culturalmente preminente nel dibattito storiografico e pubblicistico, mentre quando a sostenerle sono autori che non appartengono alla tradizione di sinistra vengono rimosse o nemmeno prese in considerazione .
Negli ultimi anni, a partire dal libro di Giampaolo Pansa “il sangue dei vinti” (2003) si è affermato nel discorso pubblico il cosiddetto “revisionismo“.
Il termine, coniato dai critici del lavoro di Pansa, conteneva evidentemente un’ accezione dispregiativa (come se la storia non fosse sempre intrinsecamente attività di revisione di fatti e interpretazioni). Il libro, cui seguirono altri suoi libri incentrati sempre sul revisionismo e la guerra partigiana, trattava, in forma romanzata, degli episodi di violenza che si erano verificati al termine della guerra ad opera dei partigiani delle brigate Garibaldi nel triangolo rosso (in particolare in Emilia Romagna) e che il partito comunista aveva occultato per non incrinare l’immagine di purezza della lotta partigiana che si era voluto diffondere attraverso la retorica della resistenza. Episodi su cui la storiografia aveva già fatto ampiamente chiarezza, ma che causarono all’autore, che sicuramente apparteneva al mondo della sinistra, contestazioni molto violente, ai limiti del linciaggio. I libri di Pansa hanno avuto il merito indubbio di portare all’attenzione di un vasto pubblico temi fino ad allora confinati al dibattito accademico tra studiosi o nei giornali, e su cui evidentemente si manifestava un grande interesse. Tuttavia, come detto, nulla aggiungeva a ciò che sulla resistenza era stato già scritto da altri. Nel sangue dei vinti, ad esempio, Pansa si limitava a riproporre fatti illustrati nei libri di Pisanò e di Gianni Oliva (“La resa dei conti”).
Quando, in un dibattito televisivo, lo storico Angelo d’Orsi chiese a Pansa perché non avesse pubblicato la bibliografia da cui avevo attinto per il suo lavoro, si sentì controbattere in maniera sprezzante l’argomentazione per cui la domanda non si poneva dal momento che i suoi libri vendevano migliaia di copie, a differenza di quelle dello storico. Tuttavia, i fatti che Pansa racconta nel libro sono realmente accaduti; gravemente distorte e quindi mistificatorie sono invece le interpretazioni e conclusioni cui perviene, tese sostanzialmente alla riabilitazione di chi combatté sotto l’egida della Repubblica di Salò e ad una lettura in chiave scandalistica dell’operato dei partigiani. In questo senso, l’opera di Pansa, più che come revisione storica, si configurava come un’operazione meramente commerciale (come sullo stesso tema e nel medesimo periodo i libri, seppur di minor impatto, di Bruno Vespa e Arrigo Petacco).
Si realizzò in quegli anni un esempio emblematico di uso politico della storia, nel tentativo di equiparare moralmente le due parti in lotta, i partigiani e “i ragazzi di salò”, da parte di esponenti della destra allora al governo – al pari o peggio dell’uso che della resistenza fece il partito comunista per accreditarsi come forza democratica. Per quanto si possa ammettere che molti di coloro che si arruolarono per la Repubblica di Salò fossero in buona fede, le due parti in causa non erano però in alcun modo equipollenti dal punto di vista etico-morale. Chi combatté contro il nazifascismo, per l’instaurazione della democrazia in Italia era dalla parte giusta della storia; quelli che, per qualsiasi ragione, militarono affianco ai nazisti erano invece dalla parte sbagliata. Questo è ciò che conta ai fini del giudizio storico.
Pertanto è giusto ricordare senza reticenze uno degli avvenimenti più rilevanti della storia patria e celebrare la memoria di quegli italiani che misero a repentaglio la propria vita (e in taluni casi sacrificarono), in difesa della comune libertà.