La moratoria sul blocco dei licenziamenti è uno di quegli argomenti che suscitano infervorate discussioni, soprattutto a sinistra. Sembra di essere tornati ai dibattiti stantii sull’articolo 18 di qualche lustro fa. Si tratta di un argomento controintuitivo per l’opinione pubblica: chi infatti potrebbe auspicare licenziamenti di massa? Nessuno sano di mente ovviamente, nemmeno il liberista più incallito. Epperò le cose non sono così semplici.
Questo è uno di quei casi in cui come si usa dire la strada dell’inferno è lastricata delle migliori intenzioni. Il divieto di licenziamento è una policy nefasta, che nonostante si prefigga l’obbiettivo di tutelare i lavoratori, in realtà finisce unicamente per danneggiarli. Vediamo perché.
Il blocco dei licenziamenti è una misura varata durante il periodo di lockdown al fine di evitare che le aziende approfittassero di una crisi contingente, la cui portata allora era difficile da preconizzare, per attuare scelte corrive, ovvero fare man bassa di esuberi. Era uno strumento temporaneo, eccezionale – così come la cassa integrazione – che il governo metteva in campo per non fare lievitare i livelli di disoccupazione e sostenere il lavoro.
A differenza di quel che ha scritto il prof. Maurizio Ferrera sul Corriere della Sera, oltre alla Slovacchia anche Grecia e Spagna hanno introdotto una misura non dissimile (In Spagna rimarrà in vigore fino alla fine di settembre, tuttavia le aziende possono licenziare anche se con costi maggiori).
All’epoca quindi aveva un senso, si può addirittura pensare che fosse giusta; oggi che le attività economiche tentano, seppur faticosamente, di tornare a una situazione di normalità, no. Difatti nessun (altro) paese al mondo ha in vigore una norma atta a impedire alle aziende, anche a quelle in crisi, di licenziare.
Inizialmente l’intenzione del governo era di interrompere il divieto di licenziamenti senza giusta causa il 17 agosto; ora il termine è stato dilazionato tra novembre e dicembre. Con la speranza che una volta passata la buriana, la situazione sul fronte economico sia migliore cosicché le imprese non debbano ricorrere a licenziamenti massicci. Ma è una pia illusione.
Ha scritto Tito Boeri in un magistrale editoriale pubblicato su la Repubblica: “Vigente il blocco dei licenziamenti per tutte le imprese, quelle che vivono una stagione di grande incertezza sul loro futuro e, ancor più, quelle costrette a ridurre i loro volumi di attività, finiscono per congelare le assunzioni e non rinnovare i contratti a tempo determinato alla scadenza. Senza quella valvola di sfogo molte più imprese falliscono lasciando a casa i propri dipendenti. Per non parlare delle imprese che potrebbero lasciare il nostro paese per sfuggire ad un divieto incostituzionale quando protratto oltre la stretta emergenza e che non ha corrispettivi nell’area Ocse. Sono tutti licenziamenti anche questi; gonfiano anch’essi, come abbiamo visto in questi mesi, i numeri della disoccupazione anche se, spesso con ipocrisia, ci ostiniamo a non chiamarli con il loro vero nome. O del mancato avvio di nuove imprese. Mettetevi nei panni di chi sta cercando a fatica di aprire una nuova attività: come potreste mai assumere dei lavoratori sapendo che, nel caso le cose andassero male, non potreste licenziare?”
Il blocco dei licenziamenti produce quindi effetti distorsivi sul mercato del lavoro non solo in uscita ma anche in entrata: come detto scoraggia le assunzioni o i rinnovi contrattuali dei lavoratori a termine (i più danneggiati finora, costituiscono infatti l’80% del mezzo milione di disoccupati determinati dal covid) e la nascita di nuove imprese; acuisce il dualismo tra lavoratori iper garantiti e precari (il 15% della forza lavoro secondo l’Istat); e rappresenta un incentivo perverso al nanismo imprenditoriale, uno dei mali atavici del capitalismo italico.
Senza dimenticare che impedire di ristrutturarsi a quelle aziende che ne abbisognano, per via dei cali di fatturato, ingessa ulteriormente il mercato del lavoro. Una norma siffatta è passibile di incostituzionalità perché interferisce con la libera iniziativa economica garantita dall’articolo 41 della costituzione. Le imprese devono essere libere di poter licenziare se non hanno i margini per mantenere quei lavoratori, specie di fronte al rischio concreto di fallire. Non spetta allo Stato stabilire quali posti di lavoro debbano essere mantenuti oppure no. Compito dello Stato è quello di favorire la mobilità del lavoro e la riallocazione di capitale umano; mettere le imprese nella condizione di poter esperire al massimo il loro potenziale riducendo costo del lavoro e adempimenti burocratici; sostenere il lavoratore nel processo di transizione da un lavoro all’altro anziché il posto di lavoro.
Infine, procrastinare sempre più in là i licenziamenti li rende socialmente più onerosi per i lavoratori. Questo perché concentrare uno stock ampio di disoccupati in un dato periodo, piuttosto che scaglionarlo nel tempo, rende molto più difficile la ricerca di un impiego alternativo. Sempre Boeri ha fatto notare che “in un mercato del lavoro con molti disoccupati e pochi posti vacanti la probabilità di trovare un altro lavoro tende allo zero”.
Per queste ragioni, il divieto di licenziamento è insostenibile per le imprese (specie in una congiuntura in cui 1/3 delle PMI rischia di fallire per la crisi economica indotta dal covid) ed esiziale per quegli stessi lavoratori che a parole si dice di voler difendere. Si tratta di un provvedimento di stampo nord coreano, non a caso risolutamente appoggiato dai sindacati, che riflette una visione dirigista del funzionamento del mercato del lavoro.
Il blocco dei licenziamenti è stato paragonato ad un tappo messo lì ad arginare una perdita. Prima o poi la pressione sarà tale che lo farà saltare per aria. Più si aspetterà, più il fragore sarà assordante. Dunque va abolito al più presto – tranne che per le aziende che fruiscono della cassa integrazione -, prima che sia troppo tardi!
PS: il governo, senza tema di sembrare risibile, ha stabilito che le aziende che falliranno saranno derogate e potranno così licenziare. Quasi fosse una loro gentile concessione, e non un’ovvietà.
3 comments
Ottimo articolo.
Mi pare il tutto macroscopicamente evidente. Perché un imprenditore deve avere limiti e vincoli nel dimensionare l’organico in un periodo di crisi, e accollarsi i relativi costi? Io credo che il sistema migliore sia quello danese, ossia rendere libera l’impresa da un lato, ma assicurare un paracadute sociale dall’altro. Ho lavorato a Copenhagen negli anni ’70. Allora il licenziato godeva del 90% dello stipendio, dal manovale al CEO, a condizione che si sottoponesse alla frequenza di corsi di riqualificazine e accettasse i lavori che gli venissero proposti, in coerenza con la sua professionalità. Vi erano anche degli abusi, così il beneficio è stato ridotto successivamente a 4 anni, ora credo a 3.
[…] il pubblico intermedia il 60% del pil, le imprese sono oberate di tasse e adempimenti burocratici, siamo l’unico paese al mondo in cui attualmente vengono impediti i licenziamenti: dove stia la dittatura del mercato, l’applicazione del laissez faire di cui ciarla Landini […]