Riceviamo e pubblichiamo questo articolo di Ruggero Pupo.
Il decreto legge 22 novembre 2015, n. 183, meglio noto come “decreto salva banche”, ha suscitato molto interesse presso il pubblico. Riguarda la risoluzione di alcune banche in sofferenza, tramite la svalutazione delle partecipazioni azionarie e l’annullamento dei crediti vantati da determinate categorie di obbligazionisti.
Le quattro banche in questione sono la Banca Marche, Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio, Cassa di Risparmio di Ferrara e CariChieti. Gli istituti di credito soffrivano ancora a causa delle perdite patite durante il periodo più intenso della crisi economica. Le loro finanze si erano deteriorate a tal punto da rendere necessaria una risoluzione, operazione che consiste nella ristrutturazione delle finanze, volta ad evitare l’interruzione dei servizi essenziali e soprattutto la liquidazione dell’intera banca, che potrebbe determinare un’estensione del contagio agli istituti di credito sani. La ristrutturazione è avvenuta in base a quanto disposto dal succitato decreto legge, frutto di una concertazione tra il Governo italiano e la Commissione europea.
Le modalità con cui la risoluzione è stata portata avanti può essere brevemente riassunta in tre punti fondamentali:
- Nessun rifinanziamento tramite fondi pubblici, ad accollarsi la gran parte del costo dell’operazione di salvataggio (circa 3.6 miliardi di euro) sono state le banche “sane”. Non perché siano mosse da istinti altruistici, ovviamente, ma perché è nel loro interesse evitare il fallimento per scongiurare il contagio.
- Scissione di ognuno dei quattro istituto di credito in due società, denominate rispettivamente bridge bank e bad bank. La bridge bank ha un patrimonio costituito dagli asset ancora vitali della banca di partenza e continua a svolgere le proprie funzioni. La bad bank, invece, accoglie in sé tutte le attività deteriorate e insostenibili, non esercita le funzioni di una banca ma viene sottoposta a liquidazione. Entrambe le parti risultanti vengono gestite dalle autorità.
- Vendita di determinati rami d’azienda, in modo che il ricavato possa ripianare le perdite. In quanto non sufficiente, la vendita è stata affiancata da un bail in “parziale”, ossia dalla svalutazione delle azioni e delle obbligazioni subordinate. Fortunatamente non è stato necessario implementare il bail in fino in fondo, cosa che avrebbe comportato il prelievo dai conti correnti con deposito superiore ai 100 mila euro.
L’applicazione del bail in ha scatenato i commentatori, più o meno preparati sul tema. Praticamente tutti si sono scagliati contro le autorità di vigilanza, CONSOB e Banca d’Italia, perché, a loro dire, non avrebbero vigilato correttamente sull’operato dei CDA delle banche coinvolte.
Non è chiaro come facciano, in quanto persone estranee ai fatti e non danneggiate, ad accedere alle informazioni necessarie per la valutazione dell’operato degli amministratori. Non potendo sapere se i consigli di amministrazione abbiano commesso illeciti, non è chiaro come si faccia ad addebitare alle autorità di vigilanza una culpa in vigilando.
Anzitutto, mi sembra che si dia per presupposto un elemento: se la banca subisce delle perdite, sicuramente qualcuno non si è comportato secondo legge. Questo è evidentemente falso. Esattamente come tutti gli imprenditori, i banchieri possono fare scelte sbagliate, sebbene perfettamente legittime, e sostenere delle perdite. Non sto dicendo che l’attività del CDA delle quattro banche coinvolte sia stata legittima, né che le autorità di vigilanza non abbiano commesso errori. Dico solo che non ho modo di valutare, esattamente come non hanno modo di valutare gli indignati da talk show.
Sarebbe meglio lasciare il giudizio alla magistratura e alle autorità di vigilanza, dotati dei poteri necessari per accedere agli atti dei CDA. Se qualche irregolarità dovesse emergere, allora saranno legittime le critiche sull’insufficienza del controllo di CONSOB e Banca d’Italia. Fino al giudizio, per onestà intellettuale prima che per garantismo, bisognerebbe tacere.
Questo atteggiamento va ben oltre il puro e semplice giustizialismo. È dotato di un quid pluris, perché il giustizialismo “classico” consiste nell’affermare la responsabilità di qualcuno, prima del giudizio, per un illecito provato. In questo caso non solo non c’è stato ancora alcun giudizio, ma non è ancora chiaro se esista l’illecito.
D’altronde sono banche, la sorgente di ogni male.
Ovviamente tutti i commentatori invocano l’articolo 47 della Costituzione, la tutela del risparmio. Quasi tutti si guardano bene dal proporre una soluzione; per qualcuno invece è sottointesa, e cioè il salvataggio pubblico. E questo è veramente curioso, perché più della metà degli indignati di oggi, al momento del salvataggio del Monte dei Paschi di Siena urlava allo scandalo. Il Governo Monti aveva salvato la banca di Siena tramite un prestito di denaro pubblico (che comunque viene restituito con un tasso di interesse compreso tra il 9 e il 12%).
Quando una banca si avvicina al fallimento, le strade astrattamente percorribili sono tre:
- Lasciarla fallire, avviare una procedura di liquidazione standard e disinteressarsi delle conseguenze. In questo modo gli impiegati perdono il lavoro; tutti i correntisti perdono tutti i soldi depositati; azionisti e obbligazionisti perdono tutto; il contagio si estende agli istituti di credito sani.
- Salvarla con i soldi pubblici (bail out), come è stato fatto con MPS. Le perdite degli investitori sono ridotte e recuperabili. Ma i contribuenti si trovano, loro malgrado, a salvare un istituto di credito su cui non hanno interessi. Il che avvia un circolo vizioso, perché gli azionisti non hanno alcun interesse ad evitare operazioni ad alto rischio. Se le operazioni vanno bene percepiscono pingui dividendi; se vanno male la banca si avvicina al fallimento e lo stato interviene per ripianare. In sostanza, gli azionisti sarebbero spinti a lasciare carta bianca agli amministratori.
- Salvarla ricorrendo ad un prestito effettuato da una cordata di banche sane e, se necessario, ricorrendo anche al bail in. Attenzione: azionisti e obbligazionisti non sono nella stessa posizione dei contribuenti. Loro hanno poteri di controllo sull’operato degli amministratori; loro hanno la possibilità di farsi risarcire dagli amministratori che conducono operazioni troppo rischiose; loro hanno percepito dividendi o interessi finché la banca andava bene.
Se, fino a poco tempo fa, tutte e tre le soluzioni erano rimesse alla scelta politica (sebbene la scelta sia ricaduta sempre sul bail out) ad oggi è accettabile solo la terza.
La commissione europea stima che dall’inizio della crisi ad oggi, gli Stati dell’Euro abbiano speso circa 800 miliardi per evitare il fallimento delle banche. Questa è una spesa inaccettabile, sia perché non è giusto che per le operazioni, eventualmente spregiudicate e illegittime, di qualche amministratore a rimetterci sia il contribuente, sia perché le finanze pubbliche sono in sofferenza in ogni dove, più che mai in Italia. Per queste ragioni, è stata emanata la direttiva europea 59/2014/UE, la quale disciplina le procedure di risoluzione, consentendo gli aiuti di stato soltanto nell’ipotesi in cui anche il bail in sia insufficiente.
L’art. 31, lett b), della direttiva, tra gli “obiettivi della risoluzione” include “evitare effetti negativi significativi sulla stabilità finanziaria, in particolare attraverso la prevenzione del contagio, anche delle infrastrutture di mercato, e con il mantenimento della disciplina di mercato”, cosa che rende impraticabile la soluzione della liquidazione pura e semplice. Lo stesso articolo, alla lettera c), include tra gli obiettivi la necessità di “salvaguardare i fondi pubblici riducendo al minimo il ricorso al sostegno finanziario pubblico straordinario”, il che esclude il secondo ipotetico intervento, che per altro era quello più frequente. A descrivere la soluzione da attuare, invece, è l’art. 34, co. 3, della direttiva, ed è la soluzione concretamente attuata dal Governo.
Non c’è quindi alcuna possibilità di operare scelte politiche alternative. E meno male, visto che la scelta era sempre quella dell’intervento pubblico.
Ma cerchiamo di capire come si coniugano queste misure con la tutela del risparmio imposta dall’articolo 47 della Costituzione. “La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme”. Questo è l’incipit, e questo è lo scopo della norma costituzionale. Anzitutto è necessario interpretare il concetto di “tutela del risparmio”, in particolare per quanto riguarda l’impiego del risparmio in capitale di rischio (azioni) o di debito (obbligazioni). La tutela di questo tipo di risparmio, in Italia, viene attuata tramite tre strumenti:
- Obblighi, per le società emittenti, di pubblicare le informazioni necessarie all’investitore per valutare la bontà del proprio investimento.
- Predisposizione di strumenti di tutela giurisdizionale, azionabili dai risparmiatori per tutelare i propri diritti dalle condotte illecite delle emittenti.
- Vigilanza di Banca d’Italia e CONSOB sul rispetto delle norme che regolano l’attività delle società emittenti.
Questi tre tipi di tutela costituiscono attuazione dell’art. 47, ed è falso affermare che a causa delle imposizioni dell’UE il risparmiatore sia meno tutelato. Negli anni, da Bruxelles sono giunte a noi direttive sulla regolamentazione della trasparenza del mercato, delle OPA e dell’attività bancaria, sempre basate sull’obiettivo dichiarato di tutelare l’investitore (cioè il risparmiatore che decide di investire). Il diritto derivato dell’Unione Europea ha avuto una parte importante nella predisposizione di strumenti volti all’implementazione dell’art. 47 della Costituzione, e non è detto che quegli strumenti sarebbero stati spontaneamente impiegati dal legislatore nazionale. Se poi si considera che l’attività delle istituzioni UE trascende i confini nazionali ed assicura una tutela dell’investimento uniforme in tutti gli Stati membri, non si può che riconoscerne il ruolo fondamentale nella tutela del risparmio. In questo modo si annulla il fenomeno della “concorrenza tra ordinamenti”, per cui i vari stati cercavano di dare una tutela al risparmio ridotta rispetto a quella apprestata all’estero per attrarre un numero maggiore di Corporation (che per l’economia nazionale significa un PIL più alto e un gettito fiscale considerevole).
Nessun costituzionalista ha mai sostenuto che la tutela del risparmio di cui all’art. 47 implichi la restituzione, da parte dello Stato, delle perdite subite dal risparmiatore a causa di un investimento sbagliato. Sta all’autonomia del privato valutare l’investimento e decidere di conseguenza. Se la valutazione è sbagliata, è l’investitore a doverne sopportare il prezzo, non il contribuente incolpevole. Il privato cittadino non è un bambino, incosciente e inconsapevole. Gode della libertà dell’iniziativa economica privata, come da art. 41 della nostra Costituzione, e ovviamente ne sopporta le conseguenze. Si potrebbe parlare di “autoresponsabilità”, perfettamente compatibile con il quadro dei rapporti economici tracciato dal Costituente. Per altro, con un meccanismo di risoluzione come quello applicato si avvia un circolo virtuoso: gli investitori vengono responsabilizzati e smettono di investire nelle banche meno solide. Questo provocherebbe un maggior afflusso di capitali verso gli istituti di credito sani, nel pieno rispetto del principio meritocratico. Quanto alle banche meno solide, si troverebbero a dover ristrutturare il proprio capitale (tendenzialmente con l’aiuto delle banche sane, come da direttiva UE) e a doverlo gestire in maniera più attenta (quindi a diventare più solide) per continuare a sopravvivere attraendo capitale di rischio e di debito.
Ora torniamo al caso in questione. I risparmiatori incappati nel bail in hanno sottoscritto dei contratti. Questi contratti, come riporta un articolo di Rossella Bocciarelli pubblicato sul Sole 24 Ore, subordinavano espressamente il soddisfacimento del credito degli obbligazionisti subordinati alla “soddisfazione di talune categorie di creditori”, in caso di liquidazione o procedure concorsuali. Allo stesso modo, per controllare lo stato di salute di una banca basta fare un giro su internet e verificare l’indice di rischio.
È probabile che gli impiegati o i direttori delle filiali, che hanno proposto la sottoscrizione ai risparmiatori, abbiano edulcorato il profilo del rischio. Ma è ovvio che chi cerca di vendere qualcosa metta in risalto le sue caratteristiche positive e glissi sugli aspetti negativi. Sta all’investitore leggere il prospetto che firma. È altresì possibile che il “risparmiatore medio” non abbia gli strumenti per comprendere la portata di una clausola simile, ed è per questo che esistono gli avvocati e gli investitori professionali. Chi vuole investire senza saperlo fare può comodamente ricorrere agli intermediari.
Anche non avendo letto il prospetto (cosa che, mi si conceda, è davvero stupida), se la banca offre un tasso di interesse intorno al 5%, il fatto che il rischio sia alto è palese a prescindere.
Cerchiamo di ricapitolare: il risparmiatore ha una somma più o meno sostanziosa; invece di diversificare l’investimento, punta tutto su una determinata categoria di titoli emessi dalla stessa banca; non legge il prospetto che firma, o lo legge senza capirlo; non vigila sul tuo investimento, omettendo di controllare l’andamento finanziario della banca. In questa sequela di scelte non ce n’è una che sia giusta. Non mi sembra iniquo, quindi, fargli sopportare il costo dell’investimento sbagliato. Se l’errore è stato indotto da un comportamento illecito dell’amministrazione, l’investitore avrà gli strumenti per ottenere la tutela dei propri diritti in sede di giudizio.
Si direbbe che il nostro Governo, seppur “gentilmente” spinto da Bruxelles verso la giusta direzione, abbia fatto la scelta corretta. Ma niente paura, l’intervento riparatore è dietro l’angolo.
Per calmare gli animi dei numerosi contestatori che popolano le urne elettorali, pare che sia pronto un fondo (costituito da soldi pubblici, ovviamente) per risarcire almeno in parte le vittime del bail in. Il che è doppiamente sbagliato, anzitutto perché significa restituire agli investitori i soldi persi in un investimento sbagliato, cosa surreale che non ha nulla a che vedere con la tutela del risparmio e che anzi si configura come illiberale. In secondo luogo perché si tratta di aiuti di Stato, seppur indiretti. Piuttosto che ripianare direttamente i debiti della banca tramite il fondi pubblici, si ripianano con i soldi degli investitori e poi si restituiscono i soldi agli investitori. Il che espone l’Italia ad una procedura di infrazione per la mancata applicazione della direttiva di cui sopra, ergo ad un altro esborso pubblico facilmente evitabile.
A nulla vale la scelta di un nome “accattivante” per il fondo, si tratta di aiuti di Stato, anche se lo si chiama “fondo umanitario”. Tra l’altro, pare che il suddetto fondo non risarcirà tutti gli obbligazionisti ma solo alcuni di loro, scelti in base a dei criteri al momento ignoti. La domanda sorge spontanea: come si coniuga una misura del genere con il principio di uguaglianza posto dall’articolo 3 della Costituzione?
Di Ruggero Pupo