Il 25 Aprile, ogni anno, arriva con il suo carico di cortei e polemiche e come occasione di scontro della politica italiana. Un po’ come il Festival di Sanremo, mi verrebbe da dire.
O peggio perché, a differenza del Festival, nessuno sa bene davvero che cosa questa Festa debba rappresentare; in che cosa si debbano riconoscere gli italiani.
Mi direte, non è la Festa della Liberazione? Sarà, ma in quell’aprile del 1945 il fascismo era caduto già da due anni, mentre i tedeschi avrebbero cessato di combattere solo nel maggio successivo. La guerra civile tra italiani, poi, si sarebbe protratta ancora per un po’. Credo proprio che ci sarebbero date più significative per celebrare quel senso di sollievo a cui associamo il concetto di liberazione. Non vi pare?
Ha più senso, allora, celebrare il 25 Aprile come la Festa della Resistenza?
In effetti è così, stando almeno al fatto storico accaduto il 25 Aprile 1945, legato al proclama del CNLAI, per l’insurrezione generale delle città del Nord (Centro e Sud erano già state liberate dagli Alleati) e per la condanna a morte di tutti i fascisti (4 giorni dopo avremmo avuto Piazzale Loreto).
Un proclama che ha reso evidente, alle opinioni pubbliche di tutto il mondo, l’esistenza di ciò che chiamiamo Resistenza.
Ma cosa significa davvero festeggiare la Resistenza, oggi, come fatto storico e come evento politico? Nella vicenda bellica, la costituzione di bande partigiane dislocate sull’Appennino, sulle Alpi e nelle città, dietro le linee nemiche, è stato un fatto di grande importanza. Certo non decisivo ma rilevante. Tanto più che tali bande erano comandate, in gran parte, da ufficiali esperti dell’esercito, ed erano costituite da pezzi di questo, oltre che da volontari.
Sono state parte del riscatto nazionale, al pari delle Quattro Giornate di Napoli, liberatasi da sola dal giogo nazista, anni prima.
Come pure la vicenda dell’esercito italiano “cobelligerante” (non alleato: giustamente, gli Alleati, quegli ex nemici li tenevano a distanza), passato in soli due anni, dopo lo sbarco in Sicilia, da aprire le scatolette e a scortare le corazzate delle truppe alleate, a difendere Venezia. Un esercito abbandonato a sé stesso l’8 settembre; “resistente” e massacrato in molti luoghi (Cefalonia docet) e deportato nei campi di lavoro nazisti, dove i soldati italiani non avevano neppure il rango di prigionieri.
Ma nella Resistenza, comunemente intesa, il Regio Esercito non trova posto.
Se la Resistenza, quindi, non rappresenta complessivamente il movimento di opposizione al revanscismo fascista e all’occupazione nazista, nell’ottica del riscatto di una nazione che aveva acceso il fuoco della guerra nel Mediterraneo, di cosa si tratta davvero?
Osservando da vicino questa Resistenza, del Centro e del Nord Italia, aldilà del fatto individuale dei singoli e dei gruppi che materialmente costituirono le bande partigiane, ai quali va riconosciuta la medesima dignità dei soldati che morirono al fianco degli alleati nelle battaglie contro i tedeschi, vi riconosciamo in controluce tutta l’Italia politica dal dopoguerra.
I partiti in prima fila, che “lottizzano” la guerra per fini di propaganda, la presenza sul campo degli alleati (con i loro interessi), le profonde divisioni che hanno percorso (e ancora lo fanno) la società italiana come faglie pronte ad esplodere. La storia del Nord separata da quella del Sud.
Un crogiuolo dell’Italia che questi partiti avrebbero sigillato poi nella “Costituzione più bella del mondo”.
Insomma, il 25 Aprile è la festa dei partiti italiani che si presero l’Italia; la voce di Pertini, quel giorno del 1945, annunciava agli italiani il nuovo corso.
E gli italiani si adeguarono.
Si adeguarono gli sconfitti della guerra civile, i fascisti, che cercarono e trovarono protezione e rappresentanza sotto il nuovo regime; si adeguarono gli sconfitti nell’onore, i militari, che accettarono di scolorire il loro ruolo nella “Liberazione”, contenti di sopravvivere, dopo la sconfitta (non cosi andò agli eserciti tedesco e giapponese); si adeguarono i meridionali, abituati al Nord che comanda e detta la linea, così anche nell’avventura fascista, forse per nascondere la loro timidezza verso la democrazia e la sua assunzione di responsabilità.
E si adeguarono i vincitori: i partiti, che si presero il potere che spetta ai vinti, accontentandosi di comandare sugli italiani, in condominio con le potenze vincitrici (che sacrificarono 200 mila morti nei due anni della guerra in Italia). Che si accomodarono sulle poltrone, sorretti dalla burocrazia dello stato fascista, salvaguardata intatta, dalle sue leggi e dal puntello dei nuovi danti causa, nel nuovo gioco geopolitico più grande di loro.
Che si raccontarono che gli italiani li avevano scelti insieme alla democrazia; senza mai chiedersi perché, appena vent’anni prima o poco più, quegli stessi italiani, ai partiti e alla democrazia vi avessero rinunciato.
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bello