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Chi ha fatto gli italiani? Un discorso sul Risorgimento

Spesso il Risorgimento riecheggia nelle nostre menti e sentiamo ripeterci, non importa da chi o da quale parte politica venga tale raccomandazione, quanto sia lungimirante tenere a mente le parole di Massimo D’Azeglio (probabilmente non riconducibili direttamente a lui, come avviene per molte citazioni) su una questione che sembra sempre attuale e cruciale per l’Italia: “Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani”.

L’Italia si fece attraverso un compromesso noto a tutti: con l’incontro a Teano il 26 ottobre 1860 tra Vittorio Emanuele II, re del Regno sabaudo, e Garibaldi, vestito di un comando dittatoriale sui territori conquistati dalla Sicilia fino a Napoli, quando quest’ultimo rinunciò a portare avanti il progetto repubblicano e democratico cedendo il suo potere al nuovo re.

Infatti Garibaldi si convinse che proseguire con l’elezione di un’Assemblea Costituente avrebbe potuto compromettere la realizzazione stessa della tanto agognata Unità, poiché simultaneamente imperversava la frenesia annessionistica di Cavour. Cavour voleva far rientrare fin da subito nei ranghi Garibaldi e il suo tentativo rivoluzionario per non compromettere, a sua volta, la reputazione italiana all’estero ed evitare un intervento delle forze europee.

Le truppe piemontesi si dirigevano così verso Napoli, sotto richiesta anche di Garibaldi stesso per apparire legittimato agli occhi degli spettatori internazionali; si proclamavano poi imminenti plebisciti, mettendo maggiormente alle strette gli intenti rivoluzionari e avvicinando l’annessione dell’ex Regno delle Due Sicilie nei domini di Vittorio Emanuele.

L’Italia insomma si fece[1]. E gli italiani? È ampiamente riconosciuto come gran parte dell’eterogeneità linguistica, implicita nella divisione dialettale che contraddistingue ancora oggi la penisola, si sia rivelata crudelmente, attraverso problemi comunicativi e adattamenti forzati, nel periodo nefasto della Grande guerra. Un momento in cui i contadini, da sempre vissuti ai margini della vita politica, piagati dall’analfabetismo e costretti ad arruolarsi, furono catapultati in un contesto sconosciuto.

Tuttavia se la lingua era un problema a cui si trovò una soluzione definitiva solamente dopo la seconda guerra mondiale, attraverso una massiccia scolarizzazione e un’immersione della popolazione nella politica di massa dominata dai mass media, in quella diversità vi erano indubbiamente anche delle radici linguistiche comuni. Da qui allora si può iniziare a trattare il percorso che condusse verso la costruzione di un’identità culturale di una nazione.

Essa infatti si compone di piccoli tasselli: etnici, storici, linguistici, folkloristici, secondo il concetto di “comunità immaginata”, coniato da Benedict Anderson, dove questi elementi si aggregano all’interno di un’eredità inventata e posta su un piano atemporale[2]. È chiaro che ci si trova di fronte a «una memoria storica accuratamente selezionata, niente affatto oggettiva, ma sempre fortemente soggettiva, adattata alle richieste, alle esigenze, alle suggestioni del momento e, tuttavia, sempre presentata (o pretesa) come memoria collettiva»[3].

Due questioni fondamentali si snodano a questo punto:

  1. Quali sono le caratteristiche di questa identità?
  2. Quando si è ampiamente affermata fra le masse?

L’identità culturale italiana

Le élite culturali del Risorgimento si prestarono a riprendere temi medievali, rifacendosi ai comuni o alla Lega Lombarda, i quali rievocavano soprattutto la propensione all’indipendenza. Ciò mostrava che l’opera di affrancamento dallo straniero non fosse altro che un tema ricorrente[4] lungo la storia del proprio popolo, sottoposto per molto tempo alle minacce di una tale dominazione.

Attraverso un lavoro di riscoperta avviene una vera e propria formazione culturale che include: la cultura rinascimentale, come simbolo di fioritura culturale ed eccellenza italiana; l’unità linguistica (non proprio tale come abbiamo già ricordato, ma con radici comuni) mitizzata attraverso la figura di Dante; il richiamo obbligato alle origini latine, ibridatesi, tuttavia, con il mondo barbaro.

Infatti il mondo romano, in dialettica con quello barbaro nell’Alto Medioevo, avrebbe trovato la sua sintesi con l’esperienza franca, quindi partendo dalla conversione cristiana di Clodoveo, l’affermazione del nuovo (Sacro) Romano Impero, per infine distinguersi ancora in Italia secondo due soggetti politici: da una parte il mondo comunale, emblema della romanità con le sue leggi e il suo spirito collettivo, dall’altra i signori, votati a grandi imprese secondo un individualismo di temperamento germanico[5].

Il Rinascimento si rivela allora, con il prevalere dei signori, sì gravido di cultura ma anche un periodo funesto, che condanna la penisola al frazionamento politico e all’assoggettamento prima francese e poi ispano-asburgico[6]. Da qui inizia il legame risorgimentale con la condizione servile tipica dell’età moderna che viene biasimata, ad esempio, da Machiavelli, in quanto l’Italia non avrebbe saputo dotarsi di un esercito proprio, di un “principe” unificatore che mettesse ordine fra i litigiosi principati. Invece, ricevette il colpo di grazia dall’immobilismo e dalla divisione politica promossi dai papi (per Guicciardini complici del disastro, come Papa Clemente VII, che senza virtù né intraprendenza nell’organizzare una qualsiasi parvenza di difesa lasciò Roma al sacco dei lanzichenecchi di Carlo V)[7].

Per la cultura dell’Ottocento ecco allora che Vittorio Emanuele II diventa il nuovo “principe” unificatore (come auspicato da Machiavelli) e per “risorgere” fa affidamento alla narrativa della dominazione straniera, come anche all’humus cristiano e alla sua terminologia, dove il martirio, la santità, il sacrificio e infine la resurrezione, risultano concetti che trasformano una lotta politica in una lotta sacra. In particolare «i leader e i militanti risorgimentali si impossessano di frammenti discorsivi, rituali e liturgici di quella tradizione; ma il nuovo culto dei “santi della nazione” viene fondato su riti e sistemi di valore che hanno una logica propria, distinta da quella della santità cristiana»[8].

Medioevo, classicità, cristianità, Rinascimento (anche se il peso dato ad esso non è comparabile al revival medievale accentuato dal Romanticismo), difesa dell’indipendenza italiana, esaltazione della morte eroica, racchiudono elementi che si combinano in una pratica mitica. Essa, attraverso l’arte, (pittura, teatro, poesia, prosa), passa facilmente anche ai ceti popolari e in un’ottica sacrificale punta a creare l’idea di una nazione. Ideale certamente, ma resa concreta come mito collettivo evidente a tutti, per via dell’ipotetico legame genealogico che accomunerebbe il popolo spiritualmente e (da tenere a mente) biologicamente.

Questa cultura nazional-popolare si diffonde anche dopo l’Unità: con la presa di Roma del settembre 1870 e la nascita della questione stato-Chiesa, in cui la declinazione laica risorgimentale si scontra con l’egemonia ecclesiastica, trovando, allo stesso tempo, anche un terreno comune che si manifesta nei seguenti elementi: nell’importanza che assumono i numerosi monumenti commemorativi di personaggi come Vittorio Emanuele II (sepolto come un eroe divinizzato nel Pantheon) e Garibaldi (numerose le sue statue, come sul Gianicolo a Roma), con l’intento di pensare i morti come ancora viventi in quanto (onni)presenti nei luoghi quotidianamente vissuti; nell’esaltazione dei caduti, come testimonia il monumento eretto a Milano il 18 marzo 1895 per commemorare coloro che perirono durante le Cinque giornate del 1848[9]; infine, nella spinta sacrificale, esacerbata con la Grande guerra, in cui il richiamo alla Madre-patria si fa ancora più intenso e proietta il legame fra la difesa delle donne (madri o spose) e la Madre di tutti che è la nazione.

Perciò arrivati al primo Novecento e alla guerra si trovano varie testimonianze di questa cultura nazional-popolare e di un suo progressivo radicamento, tanto che la sua diffusione fra la popolazione si è ampliata anche grazie all’avvicinamento che operano alcuni ambienti cattolici nei confronti di essa. Partendo dal colonialismo di fine Ottocento si ha una narrativa, parallela ma che pian piano si sovrappone a quella nazionale, in cui «l’idea di una missione dell’Italia, legittimata dal primato che gli viene dall’essere figlia primogenita della Chiesa cattolica, autorizza fantasie di dominazione coloniale, considerata premessa a un’opera di civilizzazione e di evangelizzazione»[10].

Tuttavia sarà con la politica attuata dal Fascismo, prevalentemente durante gli anni ’30, che il Risorgimento si compirà realmente, in un certo modo. Infatti gli italiani si “fanno” secondo la linea scelta da Mussolini, non dissimile però da quella già tracciata settant’anni prima.

Tra il Risorgimento mancato e quello realizzato

Innanzitutto notiamo come in tutto il periodo risorgimentale e durante la fase “liberale” dello Stato italiano (1861-1922), ci sia un’incessante volontà di costruire ed affermare un’identità culturale per una nazione. Si tratta di qualcosa che denota tuttavia la mancanza di essa, cosicché possiamo parlare di «uno “Stato senza nazione”, una nazione da costruire»[11], ma che aveva al suo interno narrazioni potenzialmente inespresse e applicabili.

La lettura fatta del Risorgimento dalle varie parti politiche dello stato liberale prima e dal fascismo e dall’antifascismo poi, rendono conto di queste narrazioni, ma anzitutto di quale identità italiana, traendo origine dal mito risorgimentale, andò affermandosi.

La maggior parte del ceto borghese liberale (in cui ritroviamo molti esponenti della Destra e Sinistra) si impegnava nel promuovere quella cultura appena descritta; tuttavia già Piero Gobetti è consapevole di uno specifico atteggiamento mostrato dalla classe dirigente italiana quando afferma che:

il nuovo Stato […] si trovava privo di risorse finanziarie, con una generazione di patriotti da compensare con la beneficienza pubblica e con gli impieghi, con uno spirito inconcludente di irrequietismo garibaldino da fronteggiare. Parve che ogni fortuna avvenire sarebbe stata compromessa se non si tenesse vivo lo stato d’animo di tensione e di aspettazione in cui si prolungava lo stato d’animo degli anni precedenti.[12]

L’indifferenza del ceto liberale per la massa e i problemi sociali assicurano che la narrazione culturale offerta si appiattisca sul mito risorgimentale, venendo subita passivamente, senza fare alcun passo in avanti per integrare tutte le classi sociali e renderle compartecipi dell’unità nazionale. Il mito viene riproposto in un incessante ciclo continuo fatto di richiami a quella identità nazional-popolare che assumeva i caratteri di un vero e proprio nazionalismo, trovando ben presto una valvola di sfogo nell’imperialismo.

Per i socialisti le cose stavano diversamente: erano convinti della corruzione intrinseca allo stato borghese post-unitario che invece, attraverso l’imminente rivoluzione, avrebbe lasciato il posto ad un mondo nuovo, secondo una visione internazionale della prassi politica e un progetto massimalista. Cosicché l’accettazione dello stato risorgimentale e della componente parlamentare da parte di alcuni di essi, come Filippo Turati, per avviare le riforme nel Paese, venne sempre posta sotto scacco dagli animi massimalisti con cui tutti, in fin dei conti, sembravano andare d’accordo.

Per i comunisti, che si formeranno nel 1921 con la scissione di Livorno, subito si andrà a definire, anche per loro, una retorica antirisorgimentale e segnata dal disprezzo verso la classe politica borghese negligente, incompetente e parassitaria, culminata nel fascismo e quindi in uno stadio del capitalismo avanzato. Tuttavia se «il fascismo era il compimento del Risorgimento fatto da una borghesia asfittica e debole, anche l’imperialismo italiano non poteva essere che straccione. Solo con un salto logico coperto dall’ideologia si poteva additare il fascismo come fase suprema del capitalismo imperialistico»[13].

Entrambe le componenti politiche di sinistra rigettarono il mito risorgimentale, ma nel fare ciò non si comprese come la situazione politica italiana in realtà stesse cambiando; come le masse gradualmente divenissero sempre più attive politicamente e tale mito richiedesse di essere preso in considerazione, modificandolo, edulcorandolo degli elementi nocivi, ma senza lasciarlo alla mercé dei nazionalisti del momento (un problema posto invece da Carlo Rosselli durante il periodo d’esilio dovuto alle leggi fascistissime del 1926 e il definirsi della lotta antifascista all’estero).

Per unire democraticamente il paese sarebbe stata necessaria in futuro un’identità comune; ma nell’indifferenza altrui maturò l’identità ereditata. Di questa situazione, infatti, il fascismo se ne approfittò e nel «presentarsi come vendicatore della vittoria mutilata, Mussolini contribuì a canonizzare il conflitto del 1915-18 come “quarta guerra d’indipendenza”, appropriandosi, con una vera operazione di egemonia, di tutte le eredità dell’interventismo nazionalista e di quella di intonazione democratico-risorgimentale»[14].

Il partito unico di massa, strutturato ed impiegato per fidelizzare ogni persona all’ideologia fascista, nel tentativo di essere totalitario e di occupare “fascisticamente” e totalmente ogni ora a disposizione, risultava la macchina perfetta per fare da ponte fra il mito risorgimentale e gli obiettivi del regime. Insomma «le camicie nere erano la continuazione e il compimento dell’opera delle camicie rosse di Garibaldi, come disse [Mussolini] a Monterotondo nel 1923»[15]. Il fascismo fece allora gli italiani, li educò in massa a quell’identità culturale in continuità con il Risorgimento, attraverso un processo degenerativo che, secondo il Banti:

irrigidisce ed estremizza i tropi elementari della matrice discorsiva originaria. La genealogia e il sangue da figure metaforiche si trasformano in proiezioni di un “sapere” e di un senso comune razzisti […]. La mistica del sacrificio […] prosegue secondo una traiettoria tracciata sin dai martirologi e dalle cristologie di epoca risorgimentale. La centralità della riproduzione, dell’onore sessuale, dell’integrità razziale di donne e uomini nelle loro relazioni sessuali, ripercorre con implacabile coerenza biopolitica, l’essenza dei rapporti di genere così come sono disegnati sin dal nazionalismo delle origini. Infine, la convergenza della cattolicità verso il linguaggio nazional-popolare […].[16]

Se Mussolini porta a compimento l’opera risorgimentale, essa inevitabilmente è anche l’eredità che ci spetta nel presente e di cui i discorsi nazionali attuali sono testimoni viventi.

Non è un caso che nelle nostre scuole si insegni ancora una certa letteratura e una certa storia, secondo una chiara matrice gentiliana. Infatti che l’ossatura della riforma scolastica di Giovanni Gentile del 1923 resiste, anche dopo molte modifiche, soprattutto nell’impostazione idealistica dei programmi scolastici e nella posizione di secondo piano che assumono le materie scientifiche rispetto a quelle umanistiche. Oppure nel fatto che opere come la Divina Commedia o I Promessi Sposi vengano privilegiate a scapito di altre, magari allo stesso modo scritte o tradotte egregiamente, rinforzando ed esaltando un certo tipo di identità.

Insomma una specifica identità nazionale si costruisce ancora sin dai banchi di scuola e ritorna anche in politica, attraverso i richiami alla patria e ai confini, alla commemorazione di eventi bellici, oppure in ambito calcistico, dove, con la Nazionale, si attua spesso un «confronto stereotipato tra il genio calcistico italiano e le modalità di approccio delle altre “scuole calcistiche” nazionali, la cui differenza è spesso fatta risalire al presunto effetto dei diversi “caratteri nazionali”» [17].

La consapevolezza che la costruzione nazionale messa in moto con il Risorgimento abbia trovato la sua affermazione durante il fascismo, ci mette di fronte alla resa dei conti con un tale patrimonio culturale. Perciò sarà solo comprendendo quali di quei valori ed elementi culturali ci siano ancora utili o siano appropriati per il nostro vivere civile e democratico che potremo agire attivamente sull’identità futura. Certamente, sarà un’identità artificiale e costruita relativamente al nostro vivere, in un determinato periodo storico, come tale fu quella emersa dal Risorgimento. Oppure, come provocatoriamente rilancia il Banti, davvero abbiamo bisogno di un’identità?


[1] L. Villari, Bella e perduta. L’Italia del Risorgimento, Laterza, Roma-Bari, 2009, pp. 296-299.

[2] D. Balestracci, Medioevo e Risorgimento. L’invenzione dell’identità italiana nell’Ottocento, Il Mulino, Bologna, 2015, p. 8.

[3] Ibidem.

[4] Ivi, p 71.

[5] Ivi, p. 59.

[6] Ibidem.

[7] Cfr. A. Asor Rosa, Machiavelli e l’Italia. Resoconto di una disfatta, Einaudi, Torino, 2019.

[8] A. M. Banti, Sublime madre nostra. La nazione italiana dal Risorgimento al Fascismo, Laterza, Roma-Bari, 2011, p. 37.

[9] Ivi, pp. 68-70.

[10] Ivi, p. 122.

[11] Z. Ciuffoletti, Contro lo statalismo. Il socialismo federalista liberale di Carlo Rosselli, Piero Lacaita Editore, Manduria, 1999, p. 120.

[12] P. Gobetti, La Rivoluzione liberale, RCS Quotidiani-Einaudi, Torino, 2011, p. 45.

[13] Z. Ciuffoletti, Contro lo statalismo. Il socialismo federalista liberale di Carlo Rosselli, Piero Lacaita Editore, Manduria, 1999, p. 128.

[14] Ivi, p. 123.

[15] Ibidem.

[16] A. M. Banti, Sublime madre nostra. La nazione italiana dal Risorgimento al Fascismo, Laterza, Roma-Bari, 2011, p. 201, 202.

[17] Ivi, p. 204.

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