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We are Who we are, il solito Guadagnino lezioso

We are who we are

We are who we are è la nuova serie diretta da Luca Guadagnino. Prodotta in America da HBO – celebre per serie TV di culto, da Game of Thrones a Big Little lies – e trasmessa in Italia da Sky, ha ottenuto sui media un’accoglienza trionfale. Non c’è giornale – eccezion fatta per una stroncatura apparsa sul quotidiano La verità a firma di Maurizio Caverzan – che non si sia profuso in lodi sperticate per il nuovo lavoro di Guadagnino. Negli Stati Uniti we are Who we are è diventato un fenomeno virale per tanti millenianals. L’inizio delle riprese è avvenuto subito dopo il lockdown, in un periodo tutt’altro che fausto della sua vita, coinciso con la morte del padre e la fine di una lunga relazione con il compagno, come ha raccontato in un’intervista a Repubblica.

Dopo aver inanellato una serie di flop clamorosi (dallo scabroso Melissa P ai film con Tilda Swinton fino al recente remake – mal riuscito – del Suspiria di Dario Argento), Guadagnino ha ottenuto la ribalta, sfiorando persino l’oscar, con un film assai originale tratto dal libro di André Aciman Chiamami con il tuo nome. La storia d’amore, trasposta dal regista negli anni 80, tra due ragazzi interpretati da Timothy Chalamet e Armie Hammer. Quello che doveva essere un film di nicchia, buono solo per i festival cinematografici, grazie al passaparola, dapprima in America e poi anche in Italia, ha riscosso un successo clamoroso e diuturno, ben al di là delle aspettative del regista italiano, sia per i temi e la delicatezza con cui sono trattati che per il virtuosismo estetico, che è poi il vero marchio di fabbrica di Guadagnino. Da regista snobbato e misconosciuto in patria, criticato per uno stile manierato ed eccessivamente ampolloso, è assurto a raffinato cineasta corteggiato dal mondo di Hollywood.

Eppure, complice la sceneggiatura scritta insieme a Paolo Giordano (fisico, collaboratore del corriere della sera, autore di un libro bestseller dal successo inspiegabile come La solitudine dei numeri primi, vincitore del premio Strega nel 2008), we are Who we are risulta una serie nel complesso anodina, stilisticamente leziosa, dalla trama poco coinvolgente.

Il protagonista è un ragazzino dai capelli ossigenati, ancora imberbe, sguardo vitreo, vestiti larghi. È un adolescente irrequieto, umbratile; vive con la madre e la sua compagna. La protagonista femminile è invece una ragazza di colore, sua coetanea, figlia di una coppia di supporters di Trump. In camera ha appeso un poster di Serena Williams; anche lei è sessualmente ambigua (confusa?). A un certo punto, non si sa bene perché, decide di pittarsi barba e baffi, di radersi i capelli a zero per assumere fattezze maschili. Ciò che li accomuna, oltreché l’essere eccentrici, è la fluidità sessuale. Il sesso, inteso come genere, sembra essere per Guadagnino una mera costruzione sociale, nient’altro che una sovrastruttura. La serie, da questo punto di vista, pare quasi una sorta di manifesto dell’ideologia queer, a partire proprio dal protagonista maschile. Ma c’è da dubitare che i giovani, persino quelli americani, siano come li raffigura Guadagnino: nichilisti, emotivamente irrisolti, scevri dalle convenzioni sociali.

Il racconto è algido, artificioso, i dialoghi piuttosto scarni. Molte scene che potrebbero offrire spunti interessanti non vengono mai adeguatamente sviscerate. Tutto rimane in superficie; anche per questo è difficile empatizzare con i protagonisti, appassionarsi alle loro vicende umane. E ad essere disturbanti non sono tanto le scene di sesso, su cui pure Guadagnino non lesina, quanto la morbosità dei nudi esibiti a profusione.

Come spesso accade, i peana della critica sono inversamente proporzionali al valore di un’opera letteraria o artistica. In questo caso – solo per citarne alcuni: “Una serie mozzafiato” (Vanity Fair), “Sbalorditiva, a dir poco bellissima” (Rolling Stone) – suonano non solo eccessivi ma a dir poco immeritati.

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