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ApprofondimentiSpeaker's Corner

Virus e guerra: sogno di un’antropopoiesi

Si fa un gran parlare di guerra, in questi giorni di pandemia.

Se ne parla in modo figurato: il virus come nemico al quale resistere, e da combattere a livello mondiale; scappare -ci fanno notare- è come disertare; si incarnano gli ordini, e protetti dall’ombrello di una ragione superiore ci si sfoga.

Se ne parla in senso letterale, incendiando le polveri dei complotti: è Israele che l’ha diffuso, vedi che ha già il vaccino? No, è la Cina. Dietrofront, gli Stati Uniti; e poi perché così pochi casi in Germania? Cosa dire invece dei grandi interessi privati: Bill Gates, il capitale, le big pharma.

O ancora, nessun complotto: la guerra però ci sarà, dopo; vedrai quando sarà finita, il debito americano in mano ai cinesi, le accuse, i processi, chi vorrà cosa: vedrai che la guerra scoppierà.

Certo, il desiderio di guerra ha cessato di abitare le dichiarazioni più esplicite, come invece faceva all’aurora del secolo scorso: è raro trovare la “guerra divina” del pur ben poco bellicoso Burckhardt o la “Gran dea della rivoluzione” di cui parla Wagner, capace di “rinnovare eternamente l’umanità”; e anche frugando tra nomi meno sospetti, non sentiremo più un Dostoevskij pronunciarsi verso “quella cosa utilissima”, “che dà sollievo all’umanità”, “senza la quale il mondo si trasformerebbe in una massa vergognosa”, così come Croce oggi non parlerebbe certo di guerre in termini di “azioni divine”.

La domanda di guerra, però, frequenta le parole (cioè i pensieri) con cui ogni giorno forgiamo tecnicamente il mondo, plasmandolo: plasmando cioè la percezione che ne abbiamo, le forme con cui lo interpretiamo e, assieme, la materia che lo compone. Così come da sempre, in modo analogo, plasmiamo l’umano.

La guerra vive nei discorsi di chi genuinamente la desidererebbe, così come in quelli di chi farebbe di tutto per rendere vivida la propria opposizione a essa: di tutto, perfino -e qui giace il paradosso- che una guerra di qualche tipo si avveri.

Di per sé, il paragone tra virus e guerra non reggerebbe: perché non si entra in guerra come ci si ammala; perché in una pandemia non si sceglie il nemico, né il momento, né certamente si desidera lo scontro; perché la nozione di “combattere”, se riferita a una pandemia per la quale non si ha vaccino, non prevede attacchi o scontri “in prima linea”, ma piuttosto assomiglia a una ritirata, a un arretrare perpetuo per guadagnare tempo.

Posto questo, e forse proprio in virtù di ciò, ha senso tentare di far chiarezza circa l’apparentemente insensata domanda di guerra che circola nei discorsi, sottesa ma continua. Sarà utile rifarci qui all’analisi di Emilio Gentile: la risposta può essere intravista in ciò che le guerre si ritiene siano in grado di produrre, cioè l’uomo nuovo, un uomo rigenerato.

In particolare, la ricostruzione di Gentile -naturalmente volta all’interpretazione delle due guerre mondiali- viene ripresa da Francesco Remotti e collocata internamente alla sua straordinaria trattazione sull’antropo-poiesi presentata in “Fare umanità” (2013): è proprio nelle pagine scritte dall’antropologo che troveremo gli strumenti più utili a interpretare la chiave comunicativa (che ricordiamo: è una tecnica, costituisce una prassi ed è dotata di performatività) che domina i discorsi di queste settimane.

Partiamo dalla guerra, e da lì proviamo a giungere al virus: «La Grande Guerra è stata “la” tragedia dell’antropo-poiesi moderna. Lungi dal rigenerare l’uomo nuovo, essa si rivelò tragicamente diversa dal mito che l’aveva ispirata: l’Europa sbrana se stessa, e visto che l’Europa si identifica con l’umanità intera, lo spettacolo è quello dell’umanità che divora se stessa.

Quanto più il fallimento è stato devastante, quanto più l’umanità è stata stritolata dall’esperienza della guerra, tanto più il bisogno di una guida che lo garantisse nei suoi presupposti, nei suoi obiettivi e nei suoi processi di umanizzazione si è fatto impellente.»

Viene ripreso poi lo schema dei rituali di passaggio elaborato nel 1909 da Arnold Von Gennep, e che prevede una fase pre-liminare di “separazione”, una fase liminare di “margine”, e una fase conclusiva o post-liminare di “aggregazione”: «la Grande Guerra non è stato un rito, eppure ha tutte le caratteristiche del “margine”, cioè di un’esperienza di “sospensione dell’umanità”, con il dolore, la violenza, la sofferenza, il disorientamento, la morte che questa fase comporta e con lo sbocco terminale in una fase di “aggregazione”: i regimi totalitari si sono in effetti imposti con la certezza vitale della costruzione definitiva e positiva dell’uomo nuovo.»

Remotti continua allargando il campo: «È molto probabile che, alla base delle rivendicazioni o delle aspirazioni a un’umanità nuova e inedita ci sia un forte logoramento antropo-poietico: quanto più accentuato è il logoramento, tanto più seducenti sono le certezze fornite da una formula come quella dell’uomo nuovo. »

Risulta quindi cristallina l’opportunità simbolica offerta dalla crisi attuale: la richiesta di guerra, esplicitamente inespressa e inesprimibile dati i precedenti rovinosi e ancora troppo recenti, si sfoga aggredendo e colonizzando linguisticamente (concettualmente) un’esperienza che possa configurarsi come generalmente emergenziale o straordinaria.

«Tolto di mezzo Dio, diventa assai più difficile e temeraria l’impresa dell’uomo nuovo. Quanto è più radicale l’uomo nuovo, tanto più con esso va incontro all’ambiguità profonda delle sue certezze: quanto più l’uomo nuovo è “nuovo”, tanto più esso racchiude in sé un’incertezza inesorabile, che nasconde con il terrore.»

Il dramma dell’antropo-poiesi è soprattutto il dramma della coscienza di antropo-poiesi: siamo ormai ben oltre la preghiera baNande “Omundu, Niki?” (“Un uomo, che cos’è?”), poiché se si è approdati, con Sloterdijk (sulla scorta di Nietzsche, Foucault, e a ben vedere forse già Platone) alla nozione di natura essenzialmente tecnica dell’umano, la domanda corretta da porre sarebbe piuttosto “Un uomo, come si fa?”.

Se non si è dunque disposti ad abbracciare nuove prassi (dove il nuovo è relativo al piano di immanenza in cui si è immersi, e non all’assoluto storico) è logico si vada a ricadere nelle categorie più alla portata: antiche abbastanza da costituire una parvenza di universalità, ma non abbastanza da essere state dimenticate.

Così si ripesca la guerra, una guerra caduta dal cielo e senza reali colpevoli in assoluto: un evento tragico ma provvidenziale, dal quale uscirne purificati e più forti, rigenerati, rimodellati, nuovi.

Da qui il ritrovamento di totem nazionali sempre più âgée e simili piuttosto a dei feticci da riesumare stancamente durante le celebrazioni di rito.

Nuovamente da qui l’inclinazione a cercare spasmodicamente una colpa originaria e tutta una sfilza di sotto-colpe quotidiane; la ricerca di un soggetto da accusare come primo motore del male, e tutta un’altra schiera di colpevoli minori, ogni giorno nuovi: si intenda, ovviamente, a patto che il colpevole sia l’altro, ben in accordo ai precetti del cosiddetto familismo (tribalismo?) amorale.

E sempre da qui la tendenza a concentrarsi sugli scenari utopici che ci si prospettano dinanzi: il coronavirus come occasione per ripensare le nostre esistenze, il lavoro, l’istruzione, come opportunità per riorientare ex novo il nostro rapporto con l’ambiente; a tutti gli effetti si intende la quarantena come evento-margine, capace di rimodellare l’uomo tramite il dolore.

Non che si voglia negare qui la centralità del taglio, della crisis, persino del dolore, negli atti di antropo-piesi; quel che però è importante ricordare è che le guerre non siano un rito.

Le somiglianze tra guerre e riti di antropo-poiesi non sono sufficienti a tramutare le prime nei secondi: sono somiglianze che creano illusioni.

Quando la guerra finisce e l’uomo nuovo non si staglia all’orizzonte, allora rimangono solo macerie, le stesse macerie che oggi preferiamo non vedere, allontanadone la prospettiva: le macerie di una crisi economica profondissima, delle devastanti conseguenze che comporterà e che andranno ad aggiungersi alle tensioni psicologiche e sociali che già si addensano in queste giornate.

Insomma, faceva bene Jean-Paul Sartre a ricordare nella sua celebre conferenza al Club Maintenant (non a caso tenuta la sera del 29 ottobre 1945, poco dopo la conclusione della seconda guerra mondiale) le parole scritte da Dostoevskij, per il quale “se Dio non esiste, tutto è permesso”: teniamole bene a mente, teniamo a mente il valore di quel “tutto”, prima di lasciarci abbandonare a desideri euforici e furenti.

1 comment

Dario Greggio 28/03/2020 at 20:05

Nel momento in cui “l’uomo” non è manco capace di mantenere una cazzo di promessa e di non fare l’arrogante… direi che di strada da fare ne ha parecchia. Prima di scomodare dio, l’esistenzialismo e tutti quanto…
#morteagliumani

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