“Quello che bisogna cercare è una fusione di interessi dei popoli europei e non solamente il ‘mantenimento’ dell’equilibrio di questi interessi”.
Fu Jean Monnet, uno dei padri fondatori dell’Unione Europea, a pronunciare queste parole. Nonostante la lungimiranza del politico francese, a pochi giorni dal sessantesimo anniversario della sua scomparsa, la sua dichiarazione conserva una straordinaria attualità ed, anzi, suona come un grave monito alle orecchie dei burocrati comunitari, chiamati ad amministrare un’Unione apparentemente sempre più fragile e scricchiolante.
Le difficoltà nel riemergere dal pantano della crisi economica – specie per i Paesi dell’area meridionale – hanno rafforzato le forze euroscettiche e consacrato la nascita di nuovi schieramenti marcatamente antieuropeisti; in questi giorni, poi, la partita a scacchi tra la Grecia e i suoi creditori ha assunto i connotati di un pericoloso braccio di ferro – l’FMI ha sospeso il negoziato e sul tavolo è spuntata l’ipotesi “Grexit” – e l’aria di tensione che si respira a Bruxelles ha contagiato anche i mercati.
Come se non bastasse, la questione della ripartizione dei migranti per quote, la cui discussione è stata sollecitata dall’Italia – in evidente difficoltà nel gestire in solitudine il problema degli sbarchi – ha diviso profondamente gli Stati Membri: il gesto estremo di Francia ed Austria, che hanno deciso di chiudere le frontiere per 15 giorni, rappresenta l’ennesima conferma dell’assenza di uno spirito e di una politica comune e dell’opposto prevalere degli egoismi nazionali.
Da ultimo, ma non per importanza, l’indifferenza dell’Europa nei confronti dell’avanzata dello Stato Islamico nel Nord Africa e nel Medio Oriente costituisce un ulteriore segnale delle gravi carenze strutturali dell’Unione Europea, priva di un suo esercito unico e di una strategia di difesa dei suoi confini, destinata a restare inerme ed impotente dinanzi ad una minaccia così consistente e tangibile.
In questo deprimente scenario, gli unici fronti sui quali paiono convergere sforzi comuni tesi a consolidare il processo di integrazione comunitaria sono quelli del sistema bancario e del mercato dei capitali.
Non mi riferisco alle aggressive iniezioni di liquidità sui mercati finanziari operate da Mario Draghi attraverso il suo ormai leggendario “bazooka”. Come egli stesso ha ricordato più volte, infatti, se i singoli Stati Membri non daranno seguito alle operazioni straordinarie della BCE, provvedendo ad implementare le necessarie riforme strutturali, i programmi di Quantitative Easing sono destinati a produrre effetti risibili, se non ad alimentare la distorsione tra i mercati finanziari e la c.d. economia reale. Le anomalie che caratterizzano attualmente i tassi interbancari, pur avendo, in taluni casi, temporaneamente avvantaggiato i consumatori, potrebbero rivelarsi – e si stanno rivelando – fonte di confusione, nonché determinare il manifestarsi di ulteriori fenomeni distorsivi.
Quando parlo di sforzi comuni verso cui l’Unione Europea pare convergere mi riferisco, invece, alle cc.dd. Banking Union e Capital Markets Union.
Mediante l’attuazione dell’unione bancaria, la BCE ha assunto l’onere ed il potere di vigilare direttamente sulle banche più rilevanti, per dimensioni e per estensione dell’operatività transfrontaliera, dei Paesi dell’area Euro. Ciò è stato possibile attraverso l’armonizzazione del quadro regolamentare comunitario (single rulebook) nonché grazie alla previsione del SSM (Single Supervision Mechanism) un meccanismo unico di supervisione valido in tutta l’Unione Europea, operativo dal novembre dello scorso anno.
Tale innovazione nei meccanismi di vigilanza del sistema bancario europeo è passata in sordina, probabilmente a causa della sua complessa ed articolata natura tecnica, che la rende noiosa e di difficile comprensione ai non addetti e, dunque, poco appetibile in termini di diffusione mediatica. Nondimeno, la portata di tale innovazione è straordinaria e dovrebbe – verosimilmente – consentire di prevenire che il manifestarsi di nuove gravi perturbazioni dei mercati possa produrre lo stesso devastante effetto domino che ha fatto seguito alla crisi del mercato dei subprime negli Stati Uniti ed al crack di Lemhan Brothers nel 2008.
Quello della Capital Markets Union, invece, è un processo ancora in fieri, annunciato formalmente dalla Commissione europea in occasione della pubblicazione del Green Paper del 18 febbraio 2015, ma già anticipato da alcuni provvedimenti orientati verso una profonda e radicale integrazione del mercato dei capitali degli Stati Membri finalizzata, in ultima istanza, ad una accelerazione della crescita economica e ad una rivitalizzazione del mercato del lavoro.
Per fare ciò, la Commissione ritiene che sia necessario “individuare e superare le barriere che separano il denaro degli investitori e le opportunità di investimento, nonché eliminare gli ostacoli che impediscono alle imprese di trovare investitori”.
Il ruolo del mercato dei capitali in questo processo di stimolo all’economia reale è illustrato con efficacia nel Green Paper attraverso un confronto esemplificativo: “le imprese di medie dimensioni, locomotive della crescita in molti paesi, negli Stati Uniti ricevono dai mercati dei capitali il quintuplo dei fondi che ottengono nell’UE. Se i nostri mercati dei capitali di rischio avessero avuto pari spessore, tra il 2008 e il 2013 le imprese avrebbero avuto a disposizione finanziamenti per 90 miliardi di EUR. Se il livello delle attuali cartolarizzazioni delle PMI potesse tornare, in tutta sicurezza, anche soltanto alla metà del livello del 2007, si libererebbero finanziamenti supplementari per circa 20 miliardi di EUR”.
Ciò è vero in Europa, ma ancor di più in Italia, dove il sistema bancario è ancora abbondantemente ingessato e dove la stragrande maggioranza del tessuto produttivo è rappresentato da PMI.
Come ha sottolineato il Presidente della Consob, Giuseppe Vegas, “senza la Capital Markets Union, la Banking Union rischia di accentuare gli squilibri che oggi caratterizzano il sistema finanziario europeo, connotato dall’eccessivo peso del credito bancario sul finanziamento delle imprese, a fronte di un ruolo ancora marginale del mercato finanziario”.
Si tratta, sostanzialmente, di favorire lo sviluppo di fonti di finanziamento alle imprese diverse dal sistema bancario che, a causa della presenza di massicce dosi di crediti in sofferenza nei bilanci e della necessità di mantenere standard patrimoniali elevati, non è più in grado di erogare credito con la stessa nonchalance di un tempo.
I sistemi alternativi già esistono, ma sono ancora poco conosciuti e sfruttati. Ad esempio, quello del venture capital e dei fondi e delle piattaforme di private equity è un mondo pressoché inesplorato: attraverso questi veicoli, si consente l’apporto di capitale di rischio da parte di investitori per finanziare l’avvio o la crescita di attività in settori ad elevato potenziale di sviluppo.
Per reperire capitale di debito, invece, sono stati istituiti alcuni fondi di private debt, che consentono alle imprese di finanziarsi attraverso l’emissione ed il collocamento di minibond, e di raccogliere così denaro per i propri progetti, da rimborsare agli investitori che sottoscrivono tali strumenti in un arco temporale di medio-lungo termine[1]
Nel nostro Paese, purtroppo, pare prevalere una controproducente cultura anti impresa: ciò è vero dal lato delle organizzazioni sindacali, che spesso si pongono come feroci antagonisti delle istanze delle associazioni di categoria degli imprenditori, con atteggiamenti anacronistici, appropriati forse alle lotte di classe della prima rivoluzione industriale; ma lo è altresì da parte dello Stato che, nonostante qualche timido tentativo in senso contrario, attraverso il mantenimento di complessi normativi elefantiaci e di una pressione fiscale insostenibile, continua a rendere difficile la sopravvivenza delle imprese in crisi e ad ostacolare la nascita di nuove iniziative.
Ciononostante, la Capital Markets Union, pare offrire degli strumenti interessanti alle imprese per aggirare tali ostacoli e scavalcare le barriere che le separano dal denaro degli investitori. Dal loro canto, tuttavia, anche gli imprenditori dovranno accogliere la sfida e dimostrarsi pronti a reinventarsi: per porsi con successo come player nel contesto di un mercato dei capitali integrato a livello europeo, infatti, le PMI dovranno innanzitutto imparare a rivoluzionare i propri assetti proprietari – tradizionalmente, la maggior parte delle società italiane, quotate e non, sono a controllo familiare e mostrano una certa reticenza ad aprirsi al mercato; inoltre, dovranno porre una maggiore attenzione alla propria efficienza e stabilità finanziaria, dotandosi di strutture interne guidate da figure professionali in grado di relazionarsi adeguatamente con gli intermediari finanziari e con gli investitori – senza una documentazione contabile adeguata ed un business plan serio, infatti, difficilmente potranno persuadere gli investitori a finanziare i propri progetti.
È lapalissiano che le forze euroscettiche ed antieuropeiste non potranno mai essere sconfitte finché l’Unione Europea non supererà tutte le contraddizioni e le debolezze che ha progressivamente mostrato negli ultimi anni. Una delle condizioni – non sufficienti ma – necessarie per poter scongiurare il pericolo che la crisi delle istituzioni comunitarie divenga irreversibile, è che l’Europa torni ad essere un luogo di prosperità.
La Capital Markets Union è un’occasione irripetibile e irrinunciabile per fare in modo che ciò avvenga. Nell’evidente incapacità degli Stati nazionali di superare questa pericolosa fase di stallo, che siano gli individui e le imprese a rendersi protagonisti di questa rivoluzione e a fare in modo che si possa progredire verso la fusione degli interessi dei popoli europei, auspicata dai suoi padri fondatori.
Memento: un insieme vale di più della somma delle sue parti!
[1] Mi riprometto prossimamente di dedicare un articolo ai fondi di private debt ed allo strumento dei minibond.