Molti italiani, per la gran parte in buona fede, sono convinti di due cose: la prima è che i 209 miliardi del Next Generation EU siano lì ad aspettarci e che basterà presentare un certo numero di faldoni zeppi di carte perché “l’Europa” ce li bonifichi direttamente sul conto. La seconda è che l’Italia debba riconoscere a Giuseppe Conte il merito di poter disporre di questa ragguardevole provvista finanziaria.
In realtà le cose stanno diversamente. Da un lato l’erogazione effettiva dei 209 miliardi (82 come sovvenzioni e 127 come prestiti) accompagnerà lo stato di avanzamento di una serie di progetti dettagliati e misurabili presentati dagli Stati, ma valutati e approvati dalla Commissione Europea, cioè l’organismo “comunitario” dell’UE. In caso di mancata attuazione dei progetti presentati, i relativi finanziamenti non vengono erogati. Questo secondo regime di sorveglianza è stato imposto – e con una certa ragione – al Consiglio Europeo (cioè l’organismo “intergovernativo” dell’Unione Europea) dai cosiddetti Paesi frugali . Il risultato è che il mutuo per la ristrutturazione della casa ci è stato concesso, ma se usiamo i soldi per andare in crociera o per costruire un piano attico anziché per rifare gli impianti come avevamo scritto, l’erogazione si blocca e ci chiedono indietro quelli già liquidati. Da qui l’abominio, a cui la rimbambita opinione pubblica italiana ha assistito senza battere ciglio fino alla scampanellata “irresponsabile” di Renzi, che le decisioni su cosa, come e chi avrebbe speso i soldi del Next Generation EU fosse considerata una roba quasi privata di alcuni dentro il governo col suo presidente del Consiglio in testa.
A proposito di Giuseppe Conte corre libera e selvaggia la versione secondo la quale si debba a lui l’aver “portato a casa” la rilevante cifra già menzionata. Proprio quando scrivo, l’ineffabile Lilli Gruber domanda ad un paziente Carlo Calenda se “almeno può ringraziare il presidente Conte per aver ottenuto quella cifra enorme a favore dell’Italia”. A me pare inverosimile come i partigiani delle “Brigate Giuseppi” possano veramente credere come il loro eroe, solo e circondato da ogni lato, sia riuscito -sussurrando ad Angela Merkel, regalando sottoli a Emmanuel Macron e spiegando agli olandesi i segreti della pochette- a sbaragliare le soverchianti forze avversarie facendo poi trionfale ritorno in patria col bottino nella bisaccia.
La realtà è ben diversa, e ha a che vedere con le catene di valore dell’industria europea e della interconnessione tra le economie del continente. L’ origine del Recovery Fund, poi divenuto Next Generation EU, si ha nel castello di Meseberg in Germania nel Giugno 2020 e per certi versi nel famoso discorso di Emmanuel Macron alla Sorbona del Settembre 2017. Se a Parigi, più di tre anni fa, Macron parlava di rilancio del progetto europeo con la creazione di un bilancio e di una politica fiscale unica, è stato nel bellissimo castello del Brandeburgo (che ai tempi della Germania Est ospitava una scuola e un negozio di alimentari) che “l’Europa” della pandemia ha preso forma.
Lì ha visto la luce ciò che era inimmaginabile fino a pochi mesi prima: le economie europee si presentano al cospetto del mercato mondiale dei capitali come un unico emittente di debito comune, ottenendo fiducia e risorse per superare, migliorandosi, la prova della terza e più grave crisi dal 2008. Il fatto che l’Italia ne benefici, potenzialmente e aumentando il proprio debito della cifra più elevata tra quelle assegnate ai Paesi membri, non dipende dalla bravura negoziale di Conte, ma dal fatto che la nostra economia è quella messa peggio, ha bisogno di più ampie ristrutturazioni, necessita di maggiori manutenzioni straordinarie, è strutturalmente più debole, e l’insieme dell’Unione, Germania e Francia in testa, non può permettere di lasciare andare l’Italia per la sua strada, specie dopo la Brexit. Insomma, la narrazione W CONTE più che altro assomiglia, per chi la conosce, alla barzelletta del coniglio che va al bordello e incontra la serpentessa. Chi non la conosce se la faccia raccontare e vedrà che calza precisa precisa.
La pandemia ha portato con sé almeno tre miracoli. Uno, l’abbiamo accennato, l’insperato e imprevedibile risultato della comunione delle emissioni di debito. Questo è stato per anni un punto su cui l’Italia ha insistito, logica conseguenza della unione monetaria. Non c’è mai stato verso, anche se i vari programmi di acquisto del debito nazionale della Banca Europea degli ultimi anni hanno ottenuto in modo surrettizio un risultato simile. Con fondatissime ragioni i cittadini tedeschi, austriaci o danesi, si chiedevano perché avrebbero dovuto fare essi le formiche per consentire agli italiani di fare le cicale. Il dramma umano, sociale ed economico di Covid 19 ha fatto superare d’un balzo queste giuste perplessità, ed i Paesi frugali (dipinti in Italia per anni come i “cattivi”) al tavolo negoziale hanno ottenuto solo di poter evitare di darci soldi se risulta che li stiamo buttando dalla finestra, il che pare proprio il minimo sindacale.
Il secondo miracolo è quello di una certa inversione dell’inerzia tra UE comunitaria e UE intergovernativa. L’Unione Europea, almeno dalla prima commissione Barroso fino a quella presieduta da Juncker – aveva progressivamente virato sempre più verso la sponda intergovernativa, lasciando tutte le scelte importanti e tutta la vision sulle scrivanie delle cancellerie nazionali. Un allineamento astrale spettacolare (la Merkel a fine carriera e presidente di turno dell’UE, la Brexit compiuta, un uomo di vista lunga come Macron a Parigi, l’elezione di una tedesca a capo della Commissione, una serie di minacce esterne sempre meno teoriche da Russia, Cina e pure USA, minacce interne da sovranismo e populismo, e, appunto, una pandemia devastante) ha consentito di sterzare, almeno un po’, riconsegnando ruolo, visibilità e potere, ad una Commissione Europea che, pur passata per il rotto della cuffia grazie ai 5 Stelle, mostra tra l’altro un personale politico largamente migliore rispetto a tutte le ultime edizioni. E’ vero che, s’è detto, senza l’ostetrica Merkel, il neonatologo Macron e il castello di Meseberg, il bambino non sarebbe nato; il muro della non mutualità avrebbe tardato a rompersi e noi italiani ci saremmo andati a sbattere il naso contro, non molto sollevati dal grido di “Ce la faremo da soli” o “Non abbiamo bisogno dell’Europa” che specie Fratelli d’Italia andava ripetendo, delirando, da Marzo. Altrettanto vero, però, che la Commissione Europea ha colto subito, e saldamente, la palla al balzo, divenendo un punto di riferimento non solo per gli Stati, ma addirittura per alcune Regioni dell’Unione che, ponendosi come interlocutori alternativi rispetto agli Stati nazionali (quindi all’Unione “intergovernativa”), hanno forse lanciato un tracciante nel cielo della futura Unione Europea.
Il terzo miracolo, incredibilmente, passa da noi. Scrivo incredibilmente perché è abbastanza evidente che tutta questa ricchissima e fertilissima fase di cambiamenti a livello continentale ci ha visto, per motivi vari, spettatori come minimo disattenti. Disattenta l’opinione pubblica, concentrata sulle conseguenze della pandemia; disattento il Governo, un po’ per limiti di comprensione e inesperienza e un po’ perché alle prese con gli schiaffi del Covid; disattenti gli intellettuali perché, con due o tre eccezioni, sono tutti morti e altri non se ne vedono in giro. Gli industriali, ovviamente, erano attenti, ma non molto confortati da un governo francamente imbarazzante. C’è chi dice che il presidente di Confindustria Bonomi non sia estraneo alla rottura che Renzi ha provocato nel Conte II. Io non lo so, ma nel caso i miei sinceri ringraziamenti a Carlo Bonomi.
Quale sarebbe l’effetto del Next Generation UE sull’economia e sulla resilienza, che so, dell’Estonia? Che gli estoni rafforzerebbero la loro già sviluppata e moderna struttura sociale, accrescendo la fiducia nella casa europea e connettendo ancor di più la loro economia a quella continentale. Solo che il PIL 2019 dell’Estonia è meno di 30 miliardi (Italia quasi 1800).
Quale sarebbe l’effetto, invece, sull’Italia ? Ve ne sarebbe uno diciamo interno: la ristrutturazione delle condizioni base di sviluppo dell’economia, della conoscenza e della crescita civile del Paese, tre elementi ad un tempo cause ed effetto dei processi di crescita di una nazione.
Più importante ancora l’effetto, diciamo, esterno. La pandemia ha causato la concreta realizzazione di un esperimento temerario: tagliata un po’ con l’accetta, 27 economie, di cui 19 con la stessa moneta, appaiono un solo emittente di debito pubblico. Che conseguenze potrebbe avere un successo globale dell’operazione ? Intendo non soltanto il successo finanziario della “raccolta”, ma anche e soprattutto il successo dell’ “impiego”, cioè della crescita reale delle economie europee ? Se l’Italia, grazie ad un uso appropriato, efficiente, produttivo delle risorse del NGEU, disincagliasse finalmente i suoi vascelli dalle secche degli ultimi 30 anni smettendo di essere il malato d’Europa, riprendesse a crescere non solo per sé, ma per la sempre più interconnessa economia continentale, se cogliessimo l’occasione di questo triennio (2020-2022) di trasformazione forzata per rendere il nostro apparato produttivo, scolastico, giudiziario, burocratico, culturale più smart, arricchiremmo – alla faccia dei sovranisti – l’ecosistema continentale ed esso arricchirebbe noi, e potrebbe riprendere il processo di integrazione europea su una scala e con una consapevolezza ben maggiore.
Con quali strumenti? Il NGEU, se efficace, diventerebbe uno degli attrezzi in mano all’Unione Europea. Un modello che se sperimentato con successo e ben calibrato sarebbe estremamente utile, specie se dovessero innescarsi processi inflazionistici in Europa – che sinceramente si attendono – e che costringerebbero la Banca Centrale a spostare almeno un po’ il suo focus: dall’assorbimento del debito pubblico nazionale con strumenti come il quantitative easing allo sforzo con manovre sui tassi per contenere l’inflazione entro livelli accettabili.
L’adozione di NGEU quale strumento non eccezionale ma standard o semi standard presupporrebbe però il compimento di un altro passo epocale, la cui realizzazione farebbe assomigliare un bel po’ di più l’Europa ad uno Stato federale. Direttamente dal Settembre 2017 e dalla Sorbona, si porrebbe il problema della composizione di una unione fiscale a livello europeo, che si porterebbe appresso in dimensione continentale molti altri spartiti fino ad oggi rigorosamente suonati da più o meno intonate orchestre nazionali, in combinazione con l’integrazione monetaria e quella produttiva.
La responsabilità non è da poco: se l’UE – e le persone che la abitano – imboccheranno questo sentiero adesso o occorreranno altri decenni e qualche altro cigno nerissimo per avere un’altra occasione ciò non dipenderà dall’Estonia, ma dall’Italia e, mi permetto di dire, dagli italiani. Da questo punto di vista, così come era inimmaginabile detenere un ruolo da protagonisti con il governo Conte II, incapace anche di allacciarsi le scarpe guardando oltre il proprio naso, sarebbe stato assai problematico pure con un governo di centrodestra a trazione Salvini-Meloni, che hanno allevato per anni le miopie e le retoriche antieuropee, nazionaliste, e, non dimentichiamolo, filorusse. Forse l’ennesima materializzazione dello stellone, che da italiano diverrebbe europeo, è un signore passato alla storia per aver detto nove anni fa “farò tutto ciò che sarà necessario“.
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Grazie per essere nella resistenza