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Esteri

Terrorismo: fenomenologia di una prassi maligna

Venerdì 2 luglio, a Dacca, in un ristorante del quartiere diplomatico della capitale bengalese, un commando di 6 terroristi ha ucciso 20 persone, di cui 9 italiani. Si tratta di una strage che ci pone davanti a gravi interrogativi. Per l’ennesima volta, dopo Charlie Hebdo, dopo Susa, dopo il Bataclan, dopo Bruxelles, dopo Istanbul (la lista va avanti per molto), l’occidente, con tutti noi, è posto davanti alla violenza di un’ideologia folle, ma soprattutto è posto davanti a se stesso, come riflesso in uno specchio.

I terroristi, qualunque fosse la loro affiliazione, non hanno voluto colpire il Bangladesh. Hanno ucciso 9 italiani, 7 giapponesi, una studentessa indiana, e 3 bengalesi, di cui uno anche americano; hanno condannato a morte chi non sapeva recitare il Corano. Dunque non il Bangladesh, ma l’idea di occidente è stata colpita. E noi, in occidente, siamo arrabbiati, ma indifesi. Ci troviamo a fronteggiare una minaccia odiosa, irrazionale, letale, davanti alla quale però non possiamo prepararci. In realtà, le statistiche sono chiare: per un europeo medio è più probabile morire a causa di un incidente d’auto che non per un attacco terroristico. Ma un incidente non è un attentato; un incidente non si insinua tra la società per scuoterla dalle fondamenta, per colpirla nei suoi punti più vulnerabili. Il terrorista invece lo fa, eccome. A maggior ragione ci arrabbiamo: ci sentiamo violati nell’intima quotidianità, per colpe addebitateci unilateralmente da un’ideologia che si legittima con la forza delle armi e del sangue. In tutto ciò, è palese la profonda ingiustizia di un’opinione che si fa legge, di un’antipatia che si trasforma in condanna, di una pena che diventa morte.

E allora, ci arrabbiamo, ma continuiamo ad essere indifesi. Allo stadio, al ristorante, in discoteca, nella metro, in aeroporto, non possiamo vigilare perennemente su una minaccia diffusa. Contiamo sull’efficacia dei servizi di sicurezza, ci affidiamo alla statistica, confidiamo sul fatto che non può capitare a noi perché magari viviamo lontani da obiettivi sensibili. Eppure la domanda, davanti a tante tragedie, sorge spesso: «Se oggi fosse capitato a me? Se domani capitasse a me?». E quindi restiamo arrabbiati, indifesi, e forse anche impauriti.

E loro? Cosa provano i terroristi, per riuscire a compiere crimini così efferati? Beninteso: non sto parlando di terroristi “manager” come Al-Baghdadi, che tra Siria e Iraq gestiscono potere e ricchezze per fini molto più mondani di quanto si creda. Mi riferisco, al contrario, ai terroristi che, armati di fucile automatico o di cintura esplosiva, uccidono e si fanno uccidere invocando un dio terribile. Ebbene, di certo non sono felici. Sicuramente, come noi, anche loro sono arrabbiati. Odiano un mondo che percepiscono come portatore d’ingiustizie e di malefatte, peccaminoso, impuro, demoniaco. La pericolosità di un’ideologia di questo tipo sta proprio in questo: essa predica tra gli ultimi, i diseredati, i poveri, gli esclusi. Uomini e donne, che diventano moltitudini in continenti come l’Africa e l’Asia, ma che ormai sono anche i nostri vicini di casa. Quand’anche si parli di persone con una stabilità economia e materiale sufficiente, spesso ci si dimentica che l’essere umano ha bisogno di una visione di senso per la vita. Daesh, come qualsiasi altra organizzazione terroristica, ha buon gioco per far attecchire le proprie idee in Iraq, in Siria, in Libia, in Palestina, in Nigeria, o in Somalia, luoghi di grave indigenza e di povertà croniche. Ma non ha grandi difficoltà a radicarsi pure in un’Europa stanca, flebile e debole. Chi erano i ragazzi che hanno attaccato il Bataclan? “Immigrati di terza generazione”, persone per cui il termine “immigrati” non serve più, perché frequentano le nostre stesse scuole, i nostri stessi uffici, pagano le nostre stesse tasse, parlano la nostra stessa lingua. A questo punto, è inutile dire che l’integrazione non è possibile: loro ormai pensano all’occidentale, come tutti noi, desiderano ciò che noi desideriamo e disprezzano ciò che noi disprezziamo. Possiedono smartphones, usano internet, e sono “informati” come qualsiasi utente medio. Ma nonostante tutto, non vedono nulla in questa società per cui valga la pena spendersi. Nel migliore degli spiriti del capitalismo, ricevono tutto ciò che di materiale si può avere e respingono quanto di valoriale rimane. La questione di fondo è che niente e nessuno, in occidente, è in grado di dar loro valori seri, concreti, validi e forti. Se si sentono esclusi dalla società, è sufficiente, ad esempio, una predica ben fatta da qualche imam deviato, ed ecco che i valori arrivano. La debolezza della nostra società diventa dunque il punto di forza di questa ideologia violenta. Tutta la prassi si orienta verso il riscatto nei confronti di questo mondo esclusivo e incapace di trasmettere un ethos per tutti. La libertà diventa peccato, il divertimento un lusso stucchevole, il non-credente un nemico d’abbattere. Tutto giustificato da dio, ma in realtà derivato dal nulla esistenziale di un occidente in crisi.

Noi cosa siamo stati in grado di opporre ai terroristi dopo la strage di Charlie Hebdo, dopo il Bataclan, o dopo Bruxelles? La libertà d’espressione, la democrazia, i valori dell’illuminismo. Bellissimo, ma è bastato? Qual è il valore della libertà d’espressione per un paese, come la Francia, dove la satira sull’Ebraismo è pericoloso antisemitismo, ma quella sull’Islam è sacrosanta? Qual è la forza di una democrazia che il giorno dopo un attentato bombarda Raqqa, uccidendo chissà quanti civili? Dove sono la libertà, l’uguaglianza e la fraternità in un’Europa che trema di paura e ruggisce odio verso i migranti?

Viviamo di retorica. E chi ci combatte credendo di fare un sacrificio (sacrum facere, fare una cosa sacra) conosce benissimo le profonde contraddizioni che ci portiamo dietro. Siamo deboli perché incoerenti, disuniti, individualisti, privi di un’etica comune. Abbiamo perso l’amore per la vita sostituendolo con la paura della morte; e adesso ci troviamo come nemico chi ha fatto dell’amore per la morte la propria bandiera e ragione esistenziale. Il 27 giugno 2015 Domenico Quirico scrisse su La Stampa un articolo (è possibile leggerlo qui) dal titolo secco: «Il nostro mondo scricchiola di fronte ai jihadisti». Concludeva così:

abbiamo perduto di fronte a popoli assetati di profezie anche sanguinarie la facoltà di dire cose sublimi, quasi ispirate, gravide di significato. Una guerra, contro di noi, è cominciata, torbida, ma ci manca la convinzione di combatterla, viviamo già con il sentimento della sua inutilità.

L’occidente è debole, culturalmente, umanamente, economicamente e socialmente, e sta perdendo terreno sotto i colpi di una forza maligna. Mentre quei «popoli assetati di profezie» riescono a nutrirsi di senso davanti a qualcosa che considerano massimamente sacro, noi agonizziamo in una realtà che percepiamo scomoda e priva di un qualsiasi significato. Loro sanno per cosa muoiono, noi non abbiamo idea di ciò per cui viviamo.

Non è in atto nessuno scontro di civiltà; l’Europa e l’Islam non si stanno facendo guerra. Semplicemente si stanno palesando tutte le contraddizioni di un sistema politico e sociale che da tempo si è avviato al declino. La vittoria, se mai arriveremo a una vittoria, non scatterà con la morte di Al-Baghdadi o con la messa al bando dell’Islam, bensì quando riusciremo a opporre al nichilismo imperante una nuova filosofia della vita: una teoria e una prassi dell’amore per la vita. Fintantoché vivremo inseguendo capricci inutili; fintantoché nasconderemo il nostro nulla esistenziale dietro a valori retorici e ipocriti; finché, forse, non avremo sperimentato il dolore di una guerra come 70 anni fa, non riusciremo mai a cogliere il senso del nostro stare in questo mondo. E continueremo a fuggire dall’idolo della morte, mentre persone più disperate di noi lo adoreranno, in una danza macabra, tripudio dei nostri e dei loro fallimenti.

5 comments

Salvatore Dedola 04/07/2016 at 09:04

Un bell’articolo che condivido al 100%. E’ così denso di concetti, che non c’è bisogno di aggiungerne.

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Gianuario Cioffi 04/07/2016 at 14:06

come fai implicitamente notare, il fondamentalismi religioso di oggi è l’equivalente del comunismo di ieri e del nazi/fascismo dell’altro ieri; tre volti di un unico male con un’unica origine: le “lacune” della società liberale .

Eppure, giustamente, suggerisci che dovremmo essere noi a riempire queste lacune con una nostra “fede”: e quale? Deve essere religiosa, o solo ideologica? E se fosse una “religione della scienza”? E come si concilia questo tema con quello, trattatissimo in questi giorni post Brexit, della critica al suffragio universale e del referendum? Forse che Daesh, Brigate Rosse e ForzaNuova, con la loro critica alla società liberale, abbiano torto sulla terapia ma pienamente ragione sulla diagnosi, è cioè che la società liberale ha fallito?
E in tutto questo, come si inserisce la dialettica tra Capitalismo NeoClassico e quello Keynesiano?

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Filippo Benedetti 04/07/2016 at 23:28

Caro Signor Cioffi, come ho scritto nella risposta al commento successivo, la nuova “fede” non è religiosa, idologica, né scientifica: è un nuovo personalismo, un nuovo umanesimo, che pone al centro della prassi la persona nella sua intera realizzazione esistenziale. La religione, in tutto ciò, può avere un ruolo anche forte, ma non per forza necessario: basta citare Kant per ricordare una “morale autonoma”. Certo, un nuovo umanesimo non si crea dall’oggi al domani: c’è bisogno di un’opera educativa, lunga e faticosa; c’è bisogno di uno sforzo collettivo, di tutti, perché si crei solidarietà, fiducia nelle capacità altrui, amore per gli altri. Non è facile. Un’opera di questo tipo educa senz’altro al libero pensiero, all’onestà e maturità intellettuale (elementi imprescindibili per un sistema democratico, a propostio di Brexit). Si tratta però di un’opera che le nostre società non sono state in grado di sostenere, per tanti motivi. In ogni caso, il fallimento della società liberale è palese: è stato palese 100 anni fa, nel 1919, lo è pericolosamente oggi. E sebbene le democrazie liberali si siano trasformate in democrazie sociali (oper dirla all’inglese, Welfare States), l’economico ha sempre finito per far prevalere il proprio primato sull’umano. Il capitalismo neoclassico e quello keynesiano sono due facce della stessa medaglia. Lo spirito del capitalismo è uno solo: il profitto economico. Accettare questo paradigna significa arrivare a sacrificare qualunque cosa (stabilità psicologica, ambientale, sociale, …) in nome dell’arricchimento. Non vedo un futuro per l’Europa e per il mondo nella dialettica tra due modelli macroeconomici, ma in un superamento netto della logica del profitto esclusivo (logica che, da bravi colonialisti, abbiamo esportato in tutto il mondo, con buona pace dei diritti dei lavoratori in Asia, Africa e Sudamerica, e della sostenibilità ambientale).

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Franco Puglia 04/07/2016 at 20:50

Caro Filippo, il tuo articolo meriterebbe un commento più articolato di poche righe, ma voglio solo dire una cosa : perchè provi un senso di colpa e di insufficienza come occidentale ? Il nostro mondo ha migliaia di anni di Storia ed i popoli si sono combattuti ed hanno versato sangue per millenni. Cosa c’è di diverso adesso? Nulla. Sono solo cambiati gli strumenti. I popoli sconfitti del passato non avevano valori né migliori né peggiori dei loro aggressori, di quelli che li hanno distrutti, o soggiogati.
Tu parti da una visione astratta dell’umanità, immaginando che se un popolo non ha l’aureola intorno alla testa è normale che ci sia qualcuno che decide di distruggerlo. La tua visione, che nega il conflitto inter religioso attuale, è antistorica, perchè dimentica ciò che è stato l’Islam nel corso di secoli. Oggi questo Islam cerca una rivincita storica. Non tutti i musulmani, naturalmente, ma neppure nei secoli scorsi : sono sempre pochi i burattinai e numerosi i burattini, da reclutare e sacrificare di volta in volta. Uccidere nel nome di Maometto equivale oggi ad alzare il pugno sinistro nel nome di Marx, ma riguarda i musulmani, come Marx riguardava i non musulmani. Non è casuale che i terroristi siano TUTTI molto giovani. Anche le BR erano formate da giovani, anche le guardie rosse di Mao Tse Tung.
Rassegnati : la tua generazione di marca musulmana è in guerra con la tua generazione di marca occidentale, e di conseguenza con tutti noi.

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Filippo Benedetti 04/07/2016 at 23:00

Gentile Signor Puglia, cercherò di essere sintetico, per quanto il discorso sia complesso.
Non sento né colpa né insufficienza. Mi limito a fare delle diagnosi di questa nostra società, fermo restando che, quando c’è qualcosa che non va, tutti si dovrebbero sentire responsabili.
Parto da una precisa “Weltanschauung”, se così si può dire, e cioè che l’umanità percorre una cammino, nella storia, di progressiva maturazione: da uno stato di primitivo legame con la natura (quello che Fromm chiamava con un’efficace immagine “i legami incestuosi del sangue e della terra”) verso una piena e completa consapevolezza di sé in quanto essere relazionale, che si misura con altri suoi simili e che è inserito in un preciso ordine naturale da rispettare. È un processo di maturazione non lineare, sia chiaro: non credo affatto al mito del progresso irreversibile che ci farà stare tutti meglio. Per realizzarsi pienamente, l’uomo ha bisogno di esprimere le sue più profonde inclinazioni, che, detto banalmente e superficialmente, sono due: l’affetto e il lavoro. Nella relazione positiva con l’altro e con il frutto del proprio lavoro, l’uomo diventa produttivo, creatore, poeta (in senso etimologico), manifesta la propria dimensione esistenziale in modo attivo, positivo appunto.
Io credo che l’uomo occidentale abbia perso questa capacità di realizzazione esistenziale, negli affetti e nel lavoro. Lo sviluppo della tecnica ha mortificato il suo desiderio di “attività creatrice”. Beninteso: non sto dicendo che siamo tutti così. Sono il primo che si sente realizzato affettivamente e produttivamente. Però, nel mio piccolo, vedo una pericolosa tendenza verso questa perdita di “passione” nel mondo europeo e occidentale in generale. All’interno di questo discorso, l’Islam ha un ruolo assai complesso. Come fenomeno religioso l’Islam è, se si vuole, ancora più complicato del Cristianesimo: dire “l’Islam” non significa nulla, perché non esiste “un” Islam, ma tanti diversi Islam. Giusto per rispondere al suo punto, la rivincita storica non è di una religione, ma di popoli che al limite professano quella religione. Del resto, basta ricordare Sykes e Picot per toccare una ferita ancora aperta; si tratta comunque di una ferita del mondo arabo, non islamico. In quei determinati contesti geo-culturali l’Islam ha certamente un’importanza centrale, ma non possiamo confondere l’Islam con il nord Africa, il Medioriente o l’Asia centrale. È ovvio che in contesti socio-culturali delicati, come molti dei paesi a maggioranza musulmana, l’Islam rappresenta un forte catalizzatore d’idee. Il problema è che dire oggi “guerra all’Islam” non ha senso ed è pericoloso, se non altro perché ora islamico è il mio vicino di casa, che magari è pure italiano. Come qualsiasi altra religione, anche l’Islam è determinato culturalmente, e si declina a seconda del contesto storico-sociale in cui è inserito. l’Islam che professa il re saudita non è l’Islam che professa il mio amico Wa’il. Ciò detto, al di là di questi punti, che tocco sommariamente perché richiederebbero pagine di analisi, la prassi terroristica ha un senso. Essa si alimenta della forza ideale dei terroristi stessi. Si tratta d’idee malsane, violente e deviate, senza dubbio, ma forti. Non è l’Islam a essere un pensiero forte, ma la cultura: una cultura tendenzialmente maschilista, conservatrice, legalista, principalista, se vuole violenta. La dirompenza di un pensiero di questo tipo si sente tutta proprio nel nostro occidente: davanti a episodi di violenza, non riusciamo a dare una reazione incisiva che vada al di là del banale pregiudizio sui “maomettani con 4 mogli”, della critica a Renzi e a Mattarella che tengono un discorso di cordoglio, o degli immigrati che vogliono imporre la shari’a. Si guarda nel proprio orticello dimenticando che fuori c’è un mondo complesso, ma tutto da scoprire. E vado constatando che a sempre meno persone interessa scoprirlo.
La risposta al decadimento esistenziale della nostra società risiede dentro noi stessi, non fuori. E non è una risposta né religiosa, né ideologica, né scientifica, né filosofica: è una risposta umana, che rimette al centro di tutto l’agire la persona e la sua realizzazione, al di là di appartenenze etnico-relgiose.
A proposito dei giovani, m’ha fatto venire in mente una frase di Khaled Fouad Allam, (fu) docente di sociologia del mondo islamico a Trieste, venuto a mancare un anno fa. Proprio un anno fa, intervistato, disse: “Vi assicuro che i giovani ragazzi, che soffrono direi anche di amore per l’altro, possono essere la fonte di nuove violenze, inedite… inedite. E su questo bisogna stare molto, molto attenti”. Anche lei è stato giovane, e credo abbia sperimentato l’abissale bisogno di senso che alla nostra età ci pervade. Siamo assetati, noi giovani. E se non troviamo, da nessuna parte, una causa per cui vivere, basta poco per trovare una per cui morire. Se non possiamo creare, dimostrando in tal modo le nostre inclinazione esistenziali, arriviamo a distruggere. Io però non sono in guerra contro i giovani musulmani, bensì contro la miseria (materiale, spirituale, …) che induce un giovane, di qualsiasi parte del mondo, a dichiararmi guerra.
A questo punto, mi fermo, perché sono stato vergognosamente lungo.

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