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Giustizia

«Summum ius, summa iniuria». I tempi biblici della giustizia italiana

La notizia sull’uxoricida di Gela, condannato all’ergastolo pochi giorni fa, 29 anni dopo aver ucciso la moglie (correva l’anno 1987!), apre – o dovrebbe aprire – l’ennesimo dibattito sull’annosa questione che riguarda la giustizia italiana.

Spesso si parla di “giustizia”, ma le soluzioni ai problemi latitano. Infatti, la stragrande maggioranza si limita a effettuare un’analisi, magari minuziosa, dei risultati che dovrebbero – o potrebbero – essere raggiunti, si limitano ad enunciare quali siano i problemi, ma soltanto una sparuta minoranza va oltre, fornendo anche – a torto o a ragione – alcune proposte per accelerare i procedimenti in corso e smaltire il carico arretrato.

In tutte le facoltà di legge, si insegna agli studenti che, per misurare il grado di civiltà raggiunto da uno Stato, basterebbe analizzare il codice di procedura penale. Perché è proprio dalle garanzie fornite da quest’ultimo che si potrebbe affermare se quella Nazione sia o meno un Paese di “tipo occidentale”. A tal proposito, un dato di esperienza insegna come il nostro sia – in generale – un ordinamento eccessivamente garantista. E già basterebbe essere d’accordo su questo per giungere facilmente a delle soluzioni “accelerative” della giustizia nostrana.

Al riguardo, è la stessa Carta costituzionale, all’art. 111 comma 2°, ad affermare: “Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata”.

Questo articolo è stato completamente modificato dalla Legge costituzionale n. 2 del 23 novembre 1999, appositamente per garantire ai cittadini un processo più equo e celere, definito come “giusto processo”. I nuovi principi impongono maggiore equilibri tra accusa e difesa, la riservatezza nei confronti dell’accusato e una durata «ragionevole», per consentire di accelerare i tempi vergognosamente lunghi in cui il processo si svolgeva e, malgrado tutto, continua ancora a svolgersi.

Il diritto alla trattazione del processo in un “termine ragionevole” era prima espressamente sancito anche in sede europea, dall’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), che consentiva al danneggiato, anche in assenza della legge nazionale, di rivolgersi direttamente alla Corte di Giustizia Europea. Ma fu soltanto con la legge n. 89/2001 (più nota come “Legge Pinto”), al fine di dare attuazione agli impegni assunti dallo Stato italiano in sede comunitaria, che il nostro Paese introdusse la possibilità per il cittadino di ottenere, in via diretta, (vale a dire, dinanzi agli organi giudiziari nazionali e non più – come accadeva in passato – dinanzi alla Corte di Giustizia Europea) la tutela del proprio diritto ad una durata ragionevole del processo.

L’art. 2 di tale legge definisce proprio il c.d. «diritto ad un’equa riparazione». Per effetto di tale norma, dunque, chiunque sia stato coinvolto in un processo civile, penale, amministrativo o tributario per un periodo di tempo considerato irragionevole, cioè troppo lungo, può richiedere, un’equa riparazione, a titolo di risarcimento del danno subito.

Ma questo non significa che il danno da durata irragionevole possa essere aprioristicamente riconosciuto solo per il semplice decorso del tempo, poiché nella singola fattispecie potrebbe essere stato anche il comportamento delle parti stesse a ritardare la definizione del procedimento che le coinvolgeva, oppure la sua intrinseca complessità.

La durata ragionevole del processo, secondo i parametri ormai accettati in sede europea, è considerata, generalmente, di 3 anni per il giudizio di primo grado, di due per il secondo grado e, infine, di uno per il giudizio di legittimità davanti la Corte di Cassazione.

Purtroppo, l’Italia continua ad infrangere i principi appena enunciati collocandosi, secondo le statistiche mondiali, nelle ultimissime posizioni preceduta perfino da molti paesi considerati «del terzo mondo». Tale stato delle cose comporta che l’Italia venga spesso multata in sede europea, proprio perché non rispetta gli impegni sottoscritti nella CEDU, oltre al fatto di dover spesso risarcire i cittadini dell’equivalente in danaro per il danno subito dall’irragionevole durata del processo, con un aggravio per le già disastrate casse erariali. Questo comporta, oltre al danno d’immagine, anche una considerevole perdita di ricchezza, visto che la lentezza dei processi – insieme ad altre concause quali l’elevata pressione fiscale, la mancanza di servizi e una burocrazia asfissiante – porta gli investitori internazionali a scegliere altri “lidi” ove investire le loro ricchezze e gli imprenditori italiani a delocalizzare le loro aziende. Da questo punto di vista, fondamentale è anche il fatto che recuperare un credito in Italia sia più difficile che in Grecia e Romania; il tempo medio di incasso di un credito è di oltre 100 giorni, ben distante dagli standard definiti dall’Unione Europea. Fra i Paesi che presentano meno difficoltà in tema di recuperi ci sono la Svezia, la Germania e l’Austria.

Se il Bel Paese vorrà uscire dalla morsa della crisi sarà bene mettere mano, oltre a tante altre cose, anche a una riforma strutturale del “sistema giustizia”, non soltanto per tutto quanto anzidetto, ma anche, e soprattutto, per poter finalmente credere in quello che dovrebbe essere uno dei tre poteri fondamentali di uno Stato democratico, vale a dire il potere giurisdizionale, addivenendo così al momento in cui tutti potremmo veramente chiamarla “giustizia”.

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