- “Dagli al burocrate!” sembra il mantra di queste settimane, nella facile demagogia che è la linfa degli euro-scettici (o meglio euro-contrari, talvolta euro-isterici). Il voto per il “leave” nel Regno Unito viene visto come una rivolta contro le burocrazie europee “pletoriche, dispendiose e parassitarie, che tutto vogliono regolamentare”, col risultato di tornare a burocrazie nazionali che sarebbero ancora più numerose (visto che gli stessi compiti saranno svolti da 28 burocrazie diverse), ancora più dispendiose e ancora più parassitarie. Non mi sembra neppure che prima l’Europa fosse così libera dagli interventismi pubblici in economia e che questi siano arrivati solo dal ’93 con la UE. Anzi, tutt’altro. Nel sentimento anti-europeo c’è sicuramente una componente nazionalista e razzista, ma vale la pena ricordare a qualcuno che gli immigrati contro cui gli inglesi si scagliano non sono soltanto africani, cinesi e mediorientali, ma sono anche i polacchi e gli italiani. Però basta guardare anche al nostro Paese per vedere che il bacino anti-UE va molto oltre la destra più o meno estrema, abbraccia settori molto più vasti della popolazione che col razzismo ed il nazionalismo c’entrano assai poco. Il punto è che per queste persone l’UE è diventata il parafulmine ideale, l’entità sovranazionale, gigantesca e al tempo stesso oscura (proprio l’immagine caricaturale dei burocrati di cui si parlava sopra), la sede dei poteri forti, dei poteri occulti che tramano contro “la gente” e a cui dare la colpa di tutte le disgrazie. In questo momento mi viene in mente una caterva di bufale che sono circolate negli ultimi anni per alimentare questa isteria, ma mi limito a citare l’ultima in ordine di tempo, dove la delirante proposta di un singolo parlamentare europeo di dare “personalità umana e diritti” ai robot, proposta che ovviamente non ha alcuna speranza di essere accolta, è stata fatta passare come già approvata e come l’ennesima legge capestro che “l’Europa ci impone”.
Forse il problema dell’UE non sta nei burocrati, ma sta nella distanza tra elettori ed eletti, che oggi è eccessiva e genera questa immagine distorta dell’integrazione europea. Pensiamo già all’Europarlamento, dove si vota col sistema proporzionale in circoscrizioni gigantesche e insensate: Il sottoscritto vota in una circoscrizione che va dalla riviera romagnola alle valli dell’Alto Adige, nella prima parlano tedesco i turisti, nelle seconde parlano tedesco gli abitanti. Che rapporto potrà mai esserci tra eletti ed elettori, in una situazione del genere? Si eleggano allora i parlamentari europei con un sistema maggioritario uninominale, con collegi assai più piccoli di oggi. Anche la controparte dell’Europarlamento nel produrre la legislazione europea, il Consiglio Europeo, non può essere composta da capi di governo e ministri che dovrebbero occuparsi di tutt’altro, piuttosto ciascuno Stato membro abbia due rappresentanti fissi e dedicati al Consiglio Europeo, designati dai governi nazionali. Infine serve una figura governativa forte, espressione diretta della popolazione e responsabile nei suoi confronti, che incarni l’unità europea. Serve un Presidente eletto direttamente, sul modello americano. E bisogna finirla con questa regola malsana per cui ogni Stato membro deve esprimere un commissario europeo, cosa che premia l’appartenenza al posto del merito, che mette il governo dell’Unione in mano ai capricci di singoli governi nazionali e lo trasforma nello sgabuzzino per politici divenuti indigesti in patria. Quello che vorrei, dopo questo shock, è un passaggio definitivo agli Stati Uniti d’Europa.
Ma il punto ora diventa: Dobbiamo davvero proseguire sulla strada dell’integrazione europea? Ci sono due argomentazioni differenti in chi si oppone, la prima è contraria al commercio internazionale ed alla libera circolazione delle persone e dei capitali tout court, ma qui oltre che fuori dal liberalismo, siamo anche fuori dalla realtà e dal buonsenso. La seconda invece vuole proseguire col libero scambio e la libera circolazione, ma senza le istituzioni “burocratiche” (torniamo sempre lì) di Bruxelles. E questa forse è ancora meno sensata. Per avere un mercato comune ed una libera circolazione delle persone è fondamentale avere regole comuni, senza le quali lo spazio di libera circolazione non potrebbe esistere. Devono esserci regole comuni di protezione dei consumatori, in base alle quali io posso fidarmi di un prodotto tedesco liberamente importato in Italia ed un tedesco fidarsi di un prodotto italiano importato in Germania, devono esistere regole comuni in base alle quali io non posso fare il bello ed il cattivo tempo in Italia e poi passarla liscia scappandomene in Irlanda, in nome della libera circolazione delle persone che non mi può essere negata. Non è altro che quello “Stato minimo” che si limita a combattere la violenza e la frode, facendo rispettare le regole che tengono in vita il libero mercato. E per definire queste regole comuni servono proprio le istituzioni e i “burocrati” tanto vituperati, serve qualcuno che le scriva. Anche adottando un utile anarcocapitalismo “metodologico”, ipotizzando l’assenza di qualsiasi entità statale e con soli mercati a cui si aderisce volontariamente, ci dovrebbe essere comunque un qualcuno che ne detti le regole. Si invocano esperienze passate come il MEC, la CEE o i semplici accordi fra Stati, ma queste cose sono servite per fare il lavoro più facile, cioè accordarsi per eliminare le barriere tariffarie. Oggi il vero ostacolo al libero commercio non sono le tariffe, sono le barriere non tariffarie, ad esempio le differenti normative di protezione dell’ambiente e dei consumatori che costringono le aziende ad adeguarsi (con relativi costi) alle regole di ciascun Paese. Se non c’è un’armonizzazione di queste normative, le barriere non tariffarie rimangono in piedi e addio mercato unico. Come si può pensare che 27 Paesi possano fare accordi unanimi ogni volta e su ogni singola materia? E’ molto più facile avere un unico organismo che rappresenta tutti e decide per tutti. Chi parla di libero mercato in antitesi al mercato unico parla del nulla, chi propone un’Europa di tanti piccoli Stati indipendenti, dove vige la libera circolazione senza organismi superiori che la regolino, non sa neanche cosa sta dicendo, perchè si possono abbattere tutte le frontiere che si vuole ma poi i consumatori e gli investitori non si fideranno mai di ciò che gli viene proposto da oltre confine, non essendoci regole comuni che li tutelino. Chi invece esce dall’UE ma rimane nel mercato comune, dovrà subire le normative del mercato comune scritte dai Paesi membri e senza possibilità di metterci mano, l’esatto contrario di quella “sovranità” che molti euro-isterici vanno sbandierando.
In definitiva, la necessità di grandi mercati unici è richiesta da quello stesso sistema capitalistico che è il perno di una politica liberale, perchè solo un grande mercato può portare ad una elevata concorrenza e ad imprese di grandi dimensioni che siano in grado di investire nell’innovazione. Ma come possiamo stare in questo mercato unico senza farci omologare dal centralismo di Bruxelles? Prima va fatto un passo indietro, visto che la scelta di queste politiche centrali ripercorrerà l’eterna contrapposizione fra la mentalità socialista (che vuol risolvere i problemi dei più poveri con la redistribuzione del reddito) e quella conservatrice (che invece vuole preservare i redditi dei più ricchi ed operosi al fine stimolarne gli investimenti, che avranno poi ricadute anche per i più poveri). Nel mondo liberale spesso ripetiamo formule di grande successo, ma ormai datate di qualche decennio. Al di là delle cantilene di chi proclama “il fallimento del neoliberismo” ogni tre per due, credo che vada fatta una riflessione sul perchè la storia dell’Occidente abbia preso una piega diversa da quella che ci si aspettava. Le riduzioni fiscali e le deregulation dell’era Thatcher e Reagan avrebbero dovuto indurre uno sviluppo economico (e quello c’è stato) che portando sempre più persone fuori dalla povertà avrebbe ridotto la domanda di redistribuzione della ricchezza, spingendo verso ulteriori riforme liberiste, e così via fino alla riduzione all’osso dello Stato. Invece non è andata così, negli anni ’90 si è avuta l’epoca moderatamente progressista di Clinton e Blair, che pur mantenendo molte riforme dei predecessori (che poi non erano altro che un “ritorno in riga” dopo gli eccessi di socialismo degli anni precedenti), hanno comunque invertito la rotta. In Italia invece la rivoluzione liberale è stata solo una chiacchiera durata più di 20 anni. Gli Stati Uniti e la Svizzera degli albori erano un ottimo modello di federalismo spinto, eppure nonostante i bei modelli teorici sulla concorrenza fra piccoli enti territoriali, che perfezionano le loro normative e tengono basse le tasse per attirare popolazione e capitali, nonostante le ricostruzioni sulla grande libertà del far west e delle comunità svizzere, la Storia è andata da tutt’altra parte, sia in Svizzera che negli USA il Governo centrale ha assunto sempre più poteri, anche per svolgere quelle funzioni di “spazio comune” a cui sarebbe chiamata pure l’UE. Delle tendenze che durano per dei decenni non possono essere imputate soltanto ad una qualche propaganda malvagia, sono un qualcosa di profondo e di strutturale.
Oltre alla mera erogazione di servizi, lo Stato compie sempre una redistribuzione del reddito, che nel caso del socialismo viene portata ai massimi livelli. A volte nel campo liberale si è fatta una facile demagogia sul “taglio degli sprechi”, ma in realtà non accade spesso che lo Stato si metta a sprecare, piuttosto redistribuisce ricchezza verso certe categorie e quelli che per qualcuno sono sprechi, per altri sono forme di giustizia sociale. Il politico non vuole sprecare i soldi, li vuole indirizzare verso se stesso e le sue clientele. Basti guardare alle polemiche che si levano nel nostro Paese nei confronti di qualunque opera di razionalizzane della spesa pubblica, anche se minima, utilizzando spesso argomenti di tipo solidaristico. Con un po’ di elasticità il ragionamento si può estendere anche all’opera normativa, si pensi ad esempio a quella ambientale: Il divieto di svolgere un’attività produttiva inquinante toglie reddito all’impresa che la voleva installare, ma crea un’utilità (anche se non in forma di denaro, è comunque un valore positivo) a favore di chi beneficia del mancato inquinamento. Lo stesso dicasi per la tutela dei consumatori, dei risparmiatori e via dicendo…. Possiamo anche pensare di abolire del tutto lo Stato, continuando con questo “anarcocapitalismo metodologico”, ma pensiamo davvero che queste forme di redistribuzione cesserebbero tutte? Il giorno dopo ci sarebbero frotte di sindacati, comitati civici, associazioni e quant’altro pronti a mettersi in lotta per ottenere tramite una via contrattuale le stesse cose che prima gli assicurava la legge in svariati campi, dal lavoro al welfare, dall’ambiente alla tutela del consumatore. Le prime tutele gli operai se le sono conquistate quando la quasi totalità di loro non poteva votare, ma potevano già far valere un certo potere contrattuale nei confronti dei datori di lavoro. Stato o non Stato, esistono delle forze nella nostra società che pretendono e riescono ad imporre una certa distribuzione del reddito, alla fine anche loro formano i movimenti del mercato, facendo rientrare dalla finestra quell’opera redistributiva dello Stato che era uscita dalla porta, facendo cambiare rotta alle grandi democrazie quando queste vedono un “eccesso di liberismo”.
Forse il liberismo non è per tutti e non è per sempre, è vero che ridurre la redistribuzione del reddito poi incentiva le persone a produrre più ricchezza, ma questo “produrre di più” significa investire e rischiare, lavorare e faticare. Non tutti se la sentono e preferiscono altre vie per avere una vita dignitosa. Ce lo dicono tanto la teoria quanto le osservazioni empiriche sulla riduzione delle tasse del lavoro, dove l’effetto osservato è quasi sempre ambiguo: Da un lato ci sono quelli che si mettono a lavorare di più perché i frutti del loro lavoro sono meno tassati, dall’altro lato c’è chi lavora di meno per guadagnare lo stesso stipendio di prima, grazie alla minore tassazione. Alcuni amici libertari sorridono quando ne parlo, ma secondo me una grande tradizione filosofica cinese come il Taoismo, millenaria e sorprendentemente legata al libertarismo, può insegnarci molto: L’accento che viene posto sul lasciar scorrere l’ordine naturale del mondo, sull’inutilità di volerlo deviare, la ricerca di un’armonia pacifica… sono tutti concetti che vanno tenuti a mente. Qui abbiamo un ordine profondissimo, intrinseco, che determina la presenza di una certa dose di socialismo nella società e nel mercato stesso. Lo sforzo intellettuale da compiere è l’integrazione fra il pensiero taoista e quello occidentale, cercando di eliminare gli eccessi, perchè il rispetto per l’ordine naturale non può spingersi fino a ritenerlo insondabile (mentre in Europa l’idea di un mondo creato secondo leggi rivelate e conoscibili agli uomini ha aperto le porte alla ricerca scientifica ed all’investimento basato sulle aspettative future, formulate in base alle conoscenze presenti) ma non si può neppure pensare di programmare ex ante lo sviluppo futuro, come hanno cercato di fare le varie ideologie costruttiviste che rappresentano la degenerazione della tipica mentalità europea. Le previsioni sul futuro vanno fatte, ma per anticipare ed assecondare le tendenze naturali, non per cambiarle o contrastarle.
Il problema del socialismo e dello statalismo credo nasca ancora più a monte dello Stato stesso, ma chi è liberale, o liberista o libertario, come può pensare di sottrarsi ad una tirannia così profonda? Un suggerimento può venire da un esempio particolare, da quello che si sta muovendo nel mercato del lavoro. Da tempo in Italia ed in Europa abbiamo una regolamentazione in buona parte dettata da leggi e contratti nazionali, tuttavia è sempre più forte la corrente di pensiero (e talvolta anche la pratica) che vuole la possibilità di contratti aziendali, o addirittura individuali, in deroga a quelli nazionali, per adattarsi con flessibilità alle varie situazioni, in modo consensuale e non coercitivo. Questo ad esempio è stato proposto da eminenti studiosi riguardo al divario regionale fra il sud e nord Italia, aprendo alla possibilità di far scendere i salari al sud, dove il costo della vita e la produttività sono minori (così da incentivare la creazione di nuovi posti di lavoro, che è la prima necessità), ed al loro aumento al nord, visto il maggior costo della vita e la maggiore produttività (attenuando il problema più diffuso, che è proprio il carovita). Allora perchè non estendere questo concetto anche alle normative sui consumatori, l’ambiente, i risparmiatori, i ceti più deboli e via dicendo?
Se i soggetti coinvolti sono d’accordo e le loro azioni non causano ricadute su terzi, gli si dia la libertà di agire in deroga alla normativa europea. L’idea di fondo è che se uno si sposta da Roma a Berlino abbia normative simili se vuole lavorare, fare acquisti, soggiornare e via dicendo, gli spostamenti (o l’importazione di merci, lavoro, capitale, idee) gli vengono assai facili perché sa che normative ha di fronte e sono le stesse del suo Paese, ma poi una volta lì avrà la facoltà di contrattare le condizioni che meglio crede e con chi vuole. Se per avere altre utilità un consumatore è disposto ad accettare un prodotto che l’Unione ritiene pericoloso, quel consumatore può entrare in un contratto col produttore in deroga alla normativa comune ed acquistare il prodotto. Il produttore farà anzitutto la merce conforme alle norme europee, poi se trova un tot di acquirenti per la merce non conforme, quella “pericolosa”, produrrà per loro (e solo per loro) anche quella. Se invece non troverà persone disposte ad acquistarla, vuol dire che quel prodotto comunque non avrebbe avuto mercato, Europa o non Europa. Se un’azienda vuole installare una produzione che l’Unione ritiene troppo inquinante, ma in cambio di altri benefits i proprietari dei terreni su cui ricadrebbe l’inquinamento sono disposti ad accettarlo, quella linea di produzione si potrà installare.
Il concetto si può anche estendere alla redistribuzione fiscale, perchè in caso di eccessiva tassazione alcune imprese ed alcuni “ricchi” potranno esimersi dal pagarne una buona parte, se dall’altro lato ci saranno dei “poveri” disposti a rinunciare ai trasferimenti a loro favore. In cambio però quei “poveri” dovranno essere assunti o vedersi aumentare il reddito a seguito degli investimenti resi possibili con questo sistema, seguendo appunto lo schema liberista. Ma è uno schema che si sceglierebbe volontariamente, mentre in altre situazioni si sarebbe altrettanto liberi di sceglierne uno più socialista. L’Unione potrà anche fare lei stessa una certa redistribuzione fiscale, però i cittadini contrari vi si potranno sottrarre. Certo, è facile immaginare che quasi tutti i “ricchi” vorranno sfuggire alla redistribuzione, mentre lo stesso non avverrà per i meno abbienti, col risultato che diversi contribuenti facoltosi non troveranno persone disposte a rinunciare alla redistribuzione. Ma questo vuol dire che anche senza Stato quei contribuenti meno abbienti avrebbero in qualche modo ottenuto la stessa redistribuzione. Molti puntano il dito contro la coercizione statale, ma dimenticano che dietro a questa c’è la forza di milioni di persone che riconoscono e tengono in piedi questi meccanismi, persone che esisterebbero comunque, a prescindere dalle istituzioni che governano la società. Stesso discorso per i servizi tipo istruzione e sanità, dove ciascuno potrebbe scegliere servizi privati alternativi a quelli pubblici, pagandoli coi soldi che altrimenti lo Stato avrebbe speso per loro. Come non si devono vietare i liberi atti capitalistici fra adulti consenzienti, da veri libertari non vietiamo neppure gli atti socialisti fra adulti consenzienti. In ultima analisi (ma qui è necessaria maggiore cautela) si può anche pensare ad una contrattazione fra privati su quelle che sono le materie che competono allo “Stato minimo”. Un esempio spinoso, l’immigrazione. Posto che il potenziale danno dell’immigrazione riguarda esclusivamente la sicurezza (in senso lato, anche come minaccia alla libertà altrui, non solo alla proprietà o all’incolumità) l’imprenditore che vuole importare manodopera straniera in deroga a quanto stabilito dall’Unione può farlo, ma la libertà di movimento di questi immigrati sarà limitata ad una certa area e ci dovrà essere l’accordo dei proprietari degli immobili situati nell’area stessa, con tutte le spese di controllo a carico dell’imprenditore ed un’assicurazione sui danni provocati da eventuali malintenzionati.
In sostanza si preserva il mercato unico, con una normativa uniforme per tutti, che sia espressione del volere della maggioranza e che permetta l’esistenza dei grandi mercati, ma poi si lascia alle minoranze la libertà di creare e contrattare le regole che più gli si addicono. A questo punto il compito dei liberali non sarebbe più quello di promuovere una politica con una direzione ideologica stabilita a tavolino, ma piuttosto di sintonizzare l’impianto normativo con le naturali tendenze della società, coi sentimenti maggioritari o che anticipano le maggioranze, in una cornice di umano buonsenso. Una politica fluida, conscia che anche senza Stato questi trend spontanei si farebbero comunque sentire nel mercato e pertanto bisogna adeguarsi ad essi, lasciando agli individui ed ai loro contratti la decisione di quanto e come redistribuire la ricchezza e le utilità non monetarie. Credo che questa sia una politica davvero libertaria, che non impone a tutti un unico disegno costruttivista (qualunque esso sia), ma lascia scorrere gli eventi naturali, lascia a ciascuno lo spazio per costruirsi il proprio sistema, senza però rinunciare a stare nel grande mercato globale. Può arrivare ad essere perfino una via all’anarcocapitalismo (effettivo, non solo metodologico), perchè se in futuro diventa possibile contrattare fra privati qualunque materia di competenza dello Stato (ovvero si riducono i costi di transazione), il suo ruolo nella vita delle persone diventa nullo. Più a breve termine, può essere da un lato un terreno di confronto e convergenza con le componenti più riformiste del mondo conservatore e di quello progressista, dall’altro può essere finalmente l’occasione per tirare una linea di separazione definitiva con le componenti estremiste, dogmatiche, settarie e catastrofiste del mondo libertario, quelle frange che in nome della purezza ideologica dicono di no a qualunque riforma e finiscono col cadere nel conservatorismo, cullandosi in teorie senza alcun collegamento con la realtà e che fanno parte del campo avverso, quello del populismo che si oppone agli Stati Uniti d’Europa.