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Siamo soli nell’universo? L’approfondimento – parte 1

Dal paradosso di Fermi all’equazione di Drake, passando per il Grande Filtro… questa e molte altre ipotesi scientifiche per rispondere alle domande: esiste vita intelligente oltre la Terra? E se sì, dov’è?

«Se nell’universo esiste un gran numero di civiltà aliene, perché la loro presenza non si è mai manifestata?»: è questa la formulazione del paradosso che il fisico italiano Enrico Fermi avanzò nel 1950 in merito alla probabilità di entrare in contatto con forme di vita intelligente extraterrestre. Esso si configura come il conflitto fra l’aspettativa che la vastità dell’universo ospiti, per un assioma logico, la vita aliena e il dato fattuale e osservativo che non possiamo avere prove solide della sua esistenza.

Quasi in risposta al paradosso di Fermi, nel 1961 fu elaborata l’equazione di Drake (o formula di Green Bank), un argomento di carattere probabilistico che prende il nome dall’astronomo e astrofisico dell’Accademia nazionale delle Scienze degli Stati Uniti Frank Drake. Tale equazione è concepita per ponderare delle stime probabilistiche nella ricerca esobiologica, ossia stimare quante popolazioni aliene potrebbero dimorare nel cosmo.

«[…] mi scrissi tutte le cose che avevamo bisogno di sapere per capire quanto difficile si sarebbe rivelato entrare in contatto con delle forme di vita extraterrestri. E […] diventò piuttosto evidente che moltiplicando tutti quei fattori si otteneva un numero, N, che è il numero di civiltà rilevabili nella nostra galassia. Questo, ovviamente, mirando alla ricerca radio, e non alla ricerca di esseri primordiali o primitivi.»

Frank Drake

Peccato che sappiamo troppo poco su alcuni dei termini di questa equazione, per esempio sulla probabilità che la vita o l’intelligenza si sviluppino autonomamente, tanto che, ad oggi, sono solo tre le variabili note o calcolabili. Fino a tale equazione, Fermi dovette inferire l’esistenza di un gran numero di civiltà aliene dal principio copernicano, ma, dopo Drake, il problema proposto dal fisico italiano si rivelò un utilissimo monito alle stime ottimistiche dell’equazione, che abbracciano l’idea di un universo gremito di pianeti e popolato di civiltà avanzate capaci di stabilire comunicazioni radio, inviare sonde o colonizzare altri mondi.

È davvero possibile che l’umanità sia la sola civiltà tecnologicamente avanzata nell’Universo? Dato il paradosso tra l’elevata probabilità che esistano molte altre specie senzienti evolute, condivisa dai calcoli di Drake, e la totale deficienza di qualsivoglia forma di contatto stabilito con esse, due sono i casi: o l’intuizione e le stime sono errate, o la nostra osservazione/comprensione dei dati è incompleta.

L’equazione di Drake illustrata e spiegata (fonte: NASA)

Posta spaziale

Il 16 novembre 1974 il radiotelescopio di Arecibo, in Porto Rico, trasmise un radiomessaggio nello spazio, diretto verso l’Ammasso Globulare di Ercole (M13), a 25.000 anni luce di distanza, allo scopo di annunciare la presenza della nostra specie a eventuali ascoltatori alieni. Il messaggio di Arecibo, così divenne celebre, era una stringa binaria di 1679 cifre, un numero nient’affatto scelto a caso. Sperando infatti di intercettare qualche specie intelligente capace di decodificare i segnali radio e a conoscenza della matematica, i due ideatori Frank Drake e Carl Sagan stabilirono che i destinatari avrebbero avuto un solo modo di decifrare il messaggio: presupponendo che decidano di ordinare le cifre in un quadrilatero, l’unica via per intabellare l’informazione sarebbe in (1) 23 righe e 73 colonne o (2) 73 righe e 23 colonne, in quanto 1679 è il prodotto dei numeri primi 23 e 73.

Se con la prima disposizione emerge un dato illeggibile e un disegno privo di senso, con la seconda, opportunamente organizzati i caratteri e le spaziature, viene fuori un crittogramma di Drake, cioè una configurazione grafica in cui sono riconoscibili alcune informazioni scientemente inserite per comunicare agli extraterrestri alcuni dati generali sulla specie umana. In particolare, nel messaggio sono incisi:

  • i numeri da uno 1 a 10 in formato binario;
  • i numeri atomici degli elementi idrogeno, carbonio, azoto, ossigeno e fosforo;
  • la formula degli zuccheri e delle basi nucleotidiche del DNA, nonché il numero dei suoi nucleotidi;
  • una rappresentazione grafica della doppia elica del DNA;
  • una rappresentazione grafica di un uomo e le dimensioni (altezza fisica) di un uomo medio;
  • la popolazione della Terra;
  • una rappresentazione grafica del sistema solare;
  • una rappresentazione grafica del radiotelescopio di Arecibo e le dimensioni dell’antenna trasmittente.

Dal momento che il messaggio di Arecibo impiegherà 25.000 anni per raggiungere la destinazione e altrettanti per tornare con una possibile risposta, esso fu realizzato e lanciato più come una dimostrazione delle imprese tecnologiche umane piuttosto che come un vero tentativo di comunicare con una possibile forma di vita extraterrestre.

Rappresentazione grafica del messaggio di Arecibo

Vita all’infrarosso

In base al postulato attribuito a Fermi, se anche solo lo 0,1% dei pianeti della Via Lattea ospitasse la vita, ci sarebbe 1 milione di pianeti abitati nella nostra galassia. E con queste premesse… a quando il primo appuntamento?

Nel novembre 2015 i ricercatori della Penn University hanno dichiarato di non aver riscontrato alcuna traccia di vita extraterrestre nelle oltre 100.000 galassie setacciate con l’ausilio del telescopio all’infrarosso Wise della NASA. «L’idea della nostra ricerca» ha rivelato il portavoce del team Jason Wright «è che se una civiltà molto avanzata ha colonizzato un’intera galassia – e i dati statistici dimostrano che è uno scenario possibile in un arco di pochi milioni di anni – l’energia prodotta dalle tecnologie utilizzate dovrebbe essere rilevabile nel medio infrarosso», una radiazione prodotta da emissioni di energia che non sono visibili né con i telescopi ottici né con i radiotelescopi e «che è proprio la lunghezza d’onda che meglio di altre rileva Wise». Suggestione peraltro corteggiata già nel 1960, quando ancora non c’erano le tecnologie adatte a scandagliare tali frequenze, da Freeman Dyson, il quale ipotizzò che l’esistenza di civiltà extraterrestri lontane da noi potrebbe essere rilevata proprio osservando lo spettro infrarosso.

«Il nostro lavoro» spiega il coautore della ricerca Roger Griffith «è iniziato cercando galassie negli oltre 100 milioni di oggetti rilevati da Wise, all’interno dei quali abbiamo individuato circa 100.000 candidati. Tra questi, circa 50 hanno mostrato una forte emissione nel medio infrarosso». Se una civiltà extraterrestre avesse colonizzato una galassia, infatti, utilizzerebbe così tanta energia che le emissioni all’infrarosso sarebbero rilevabili anche da noi.

Peccato che le successive analisi abbiano indicato una causa naturale per tali emissioni: «Il risultato è interessante» prosegue Griffith «perché molte delle galassie studiate hanno età di miliardi di anni, e quindi al loro interno ci sarebbe stato tutto il tempo affinché civiltà molto avanzate potessero svilupparsi. Le nostre conclusioni sono che o civiltà avanzate non esistono, oppure che se esistono non sono così avanzate da emettere quantità di energia significative». Insomma, se esistono, vivono senza consumare energia in quantità rilevabili.

Troppo arretrati

E se, al contrario, non intrattenessimo rapporti con gli alieni perché siamo noi quelli meno evoluti? Tale dubbio risponde al principio di mediocrità, l’idea per cui non c’è nulla di raro o speciale nel nostro pianeta o livello di intelligenza specie-specifico. Potremmo infatti non percepire o conoscere i nostri compagni interstellari a causa di un grosso divario sociale, biologico e tecnologico, che porrebbe stavolta gli umani tra le specie “insignificanti” o semplicemente troppo giovani. Per farvi un esempio, siamo tutt’ora convinti che i segnali radio siano la chiave per comunicare, perché si è sempre ritenuto che una civiltà intelligente e sviluppata sappia sfruttare tale radiazione elettromagnetica.

Ma negli ultimi tempi, si è fatta avanti con forza la convinzione che il laser, più che le onde radio, sarebbe plausibilmente il metodo utilizzato dalle civiltà evolute per lanciare segnali nello spazio, e a sostenere quest’idea c’era persino il compianto Stephen Hawking. Tant’è che dopo cinquant’anni di infruttuosa ricerca e (quasi) vano ascolto di segnali provenienti dello spazio ad opera del SETI, tra il 2004 e il 2016 un gruppo di astronomi della University of California di Berkeley, sempre nell’ambito del progetto SETI, ha vagliato circa 5600 stelle della Via Lattea, «delle quali almeno 2000 sono circondate – o potrebbero essere circondate – da pianeti sui quali non sarebbe da escludere la vita». E indovinate un po’ il risultato: niente di niente.

C’è da dire che è stato studiato giusto un pugno di stelle (5600 su circa 100-400 miliardi stimati) e solo relativamente prossime a noi, a non più di 326 anni luce dal Sistema Solare. «La mancanza di un qualsiasi segnale potrebbe semplicemente voler dire che le civiltà avanzate non utilizzano il laser come metodo di comunicazione, anche se per noi è altamente efficiente, perché si degrada poco attraverso lo spazio» ha concluso uno dei ricercatori Nathaniel Tellis.

«Considerando che l’uomo abita la terra da circa 50000 anni e che le testimonianze storiche possono risalire solo a 5550 anni fa, un’eventuale civiltà extraterrestre potrebbe essere arrivata sulla Terra e non averci trovato nulla di interessante», scrive la stampa specializzata, aggiungendo che «la galassia potrebbe essere in via di colonizzazione da parte di una società aliena sviluppata, ma, viste le dimensioni della Via Lattea, noi potremmo vivere in una zona periferica o non degna di nota. Lo stesso concetto di colonizzare fisicamente altri pianeti e galassie potrebbe apparire ridicolmente retrogrado per una specie avanzata. Forse una civiltà che ha raggiunto un livello inafferrabile di sviluppo potrebbe vedere il mondo fisico come terribilmente primitivo e quindi privo di ogni attrattiva.»

E se gli alieni fossero già esistiti?

In un articolo del 2016, pubblicato sulla rivista AstrobiologyAdam Frank e Woodruff Sullivan, astronomi delle università di Rochester e Washington, hanno spiegato di voler rivedere l’equazione di Drake alla luce delle più recenti scoperte di Kepler, fresco di quasi 1.300 nuovi esopianeti portati alla luce: la loro conclusione è stata che al momento non sappiamo se vi siano civiltà aliene, ma che è molto verosimile ve ne siano state prima di noi. Il duo si è impegnato anche per riformulare la domanda di partenza, cercando di eliminare il fattore della durata delle civiltà avanzate: quali sono le probabilità che la nostra sia l’unica civiltà tecnologicamente avanzata mai esistita?

Posta in questo modo, in effetti la variabile sulla durata (e quindi sulla possibilità di incontro) delle forme di vita diventa superflua. Frank e Sullivan hanno dimostrato che le possibilità che la nostra non sia la prima civiltà tecnologicamente evoluta sono molto alte, giocando con le incognite dell’equazione: «A meno che le probabilità che si sia sviluppata una civiltà aliena su un pianeta abitabile non siano inferiori a uno su 10 miliardi di trilioni, gli umani non sono la prima forma di vita tecnologicamente evoluta ad aver abitato l’Universo osservabile».

Pennichella aliena

In passato alcuni scienziati più pessimisti hanno ipotizzato che vi sia una sola probabilità su 10 miliardi per pianeta di ospitare una civiltà tecnologicamente avanzata: in tal caso, anche mantenendoci su stime al ribasso, si sarebbe evoluto un trilione di civiltà intelligenti nella storia cosmica. E dove sono finite tutte queste specie? Secondo lo stesso Sandberg di cui sopra, semplicemente dormono. Nello specifico si tratterebbe dell’estivazione, una sorta di letargo tipico di alcuni animali e vegetali, spesso delle zone desertiche o tropicali, che permette loro di sopravvivere per lunghi periodi di grande caldo, senza scorte di acqua e cibo e riducendo il loro metabolismo.

«L’idea di fondo sta nel fatto che le civiltà avanzate basano la loro tecnologia soprattutto sui calcoli», afferma Sandberg, che ha collaborato con Stuart Armstrong e Milan Cirkovi’c della Oxford University, «e poiché il calcolo ha un elevato costo energetico, che finisce col limitarne l’uso, e che è direttamente proporzionale alla temperatura dell’ambiente in cui ci si trova, queste creature stanno attendendo che l’Universo si raffreddi. […] Questo spiega l’apparente assenza di antiche civiltà avanzate». Se Sandberg ha ragione, gli alieni dello sci-fi esistono: si sono sviluppati molto prima della comparsa della Terra, si sono espansi riuscendo a sfruttare l’energia del loro intero sistema (Tipo II o III), hanno preso il controllo dell’Universo conquistato e “il settimo giorno” sono andati a nanna.

In questa prima parte dell’approfondimento, aldilà delle teorie del complotto sugli alieni, abbiamo tentato di introdurre le keywords e alcune iniziali ipotesi ed evidenze emerse nella recente ricerca astrobiologica. Nella seconda parte passeremo in rassegna altre e più singolari ipotesi che hanno ricevuto un certo supporto empirico negli ultimi anni, per poi lanciare uno sguardo al futuro. Stay tuned!

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1 comment

dario greggio 30/05/2023 at 01:36

Se non parlate dei miei carabinieri di merda entro 2 settimane, vi ammazzo tutti.

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