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Politica interna

Salvini e l’arte di non rispondere mai nel merito

Nessuno di noi si sarebbe aspettato una risposta nel merito di Salvini: della sua abitudine a deragliare dalle linee del discorso siamo ormai consapevoli. Tuttavia non avremmo mai pensato che di 31 minuti di intervento egli avrebbe dedicato meno di un quinto del tempo alle accuse di Conte. Il discorso di Salvini è stato un miscuglio di chiacchiere da bar, benaltrismo e ciarpame elettorale vario. Anche qui nulla di nuovo.

Eppure quei trentuno minuti di nulla cosmico, se vivisezionati a dovere, riassumono bene l’essenza del populismo da salotto; che è appunto il nulla, ma un nulla irto di sfumature.

Innanzitutto è curiosa l’ossessione di Salvini per il mondo del lavoro: il suo continuo richiamo alle fatiche del prode lavoratore italiano, vessato dalla politica brutta e cattiva dell’unione europea (non si sa bene come), ha un che di farsesco. Salvini, nel bel mezzo del suo (s)ragionamento, dice di rivolgersi a chi è a casa, «all’Italia reale, non all’Italia virtuale [indica tronfio l’aula] che ha interesse a mantenere la sua poltrona […] al paese reale che lavora, che oggi è in ospedale, in azienda, in ufficio».

Un’uscita piuttosto spiazzante, se si pensa che a pronunciarla è il campione di assenteismo al Viminale (nei primi quattro mesi e mezzo del 2109 Salvini si è imbattuto nella scrivania del suo ufficio 17 volte). Potremmo enumerare anche le insolite defezioni del ministro dell’interno in sede europea, magari chiedendoci quanti vertici sull’immigrazione ha disertato; ma per questa volta passi.         

«I parlamentari lavorano a ferragosto come tutti gli altri italiani», ha infatti sentenziato l’immarcescibile Salvini: dubitereste mai, davanti a cotanta serietà, della sua buona fede?

E come tralasciare le sempreverdi stoccate del leader leghista all’Europa, tanto assurde quanto decontestualizzate (vi ricordiamo che Salvini doveva ‘solo’ intervenire sul discorso di Conte). «Siamo il paese più bello e potenzialmente più ricco del mondo – ha perorato il Capitano con un incipit da seconda media – e sono stufo che ogni nostro passo di governo, regioni, comuni, imprese o lavoratori debba dipendere dalla firma di qualche funzionario dell’unione europea».

In un tripudio di iper-semplificazioni, Salvini riesce a dire che la pubblica amministrazione italiana è ‘bloccata’ da, ipotizziamo, Commisione e Parlamento europei. Un capolavoro di retorica pseudo complottista che nella sua incosistenza è davvero raffinato, quand’anche intessuto di vezzeggiativi infantili (le “regolette europee”) e salti logici degni di un oroscoparo («la manutenzione delle scuole la facciamo se da Bruxelles ce lo lasciano fare»).

Della storia dei fondi Ue, che ogni volta riusciamo a farci scappare per nostre incapacità, nemmeno l’ombra di un accenno. Sicuramente gli sarà sfuggito. Tuttavia poteva almeno farvi menzione in quella serie compulsiva di elenchi con cui il ministro dell’interno è solito inframezzare ogni singolo discorso.

Il grande Morisi deve avergli suggerito che inserire un elenco di almeno sette elementi in ogni asserzione rende quest’ultima più credibile; sta di fatto che tale automatismo pare essere sfuggito dalle mani del ministro, dato che a un certo punto sembrava essersi incartato in una sfilza di rimandi senza fine.

Citiamo testualmente: «Lei (riferito a Conte) mi ha rimproverato di aver convocato le parti sociali, i commercianti, gli artigiani, gli imprenditori, gli ingegneri, gli architetti, i consulenti del lavoro, i sindacati, i tassisti, i pescatori (sì, lo ha detto davvero)». Per un attimo temevamo che Salvini avesse preso un po’ troppo alla lettera quel vecchio proposito di far durare le sue parole per cinque anni, tanto per rivangare una delle (numerose) versioni di Salvini, nello specifico il Salvini alieno da colpi di mano istituzionali. “L’ultima cosa di cui ha bisogno l’Italia è una crisi di governo”, sosteneva con tono paternalistico fino a poco tempo fa.

Insomma che dire, il discorso di Salvini al Senato è la cifra del populismo made in Lega (Nord): slogan iper-semplificati, scaricabarile perpetuo sull’Europa, lisciate di pelo all’elettorato desideroso di autoritarismo.

Di questi 31 minuti, però, andrebbero ascoltati nello specifico solo una ventina di secondi. Si tratta di uno spezzone passato in sordina, uno dei tanti, in cui Salvini auspica un ritorno alle urne: «Io penso che in democrazia la via maestra sia sempre e comunque quella di chiedere il parere ai nostri datori di lavoro, che sono i cittadini italiani. Noi siamo dipendenti pubblici al servizio del popolo italiano e non dovremmo mai averne paura».

In queste poche righe si può leggere in controluce la radice del becero populismo nostrano: quell’idea malsana che guarda al politico come al mero prolungamento della volontà popolare, anche laddove questa sia ottusa e autolesionista. Ascoltando la paccottiglia sovranista viene da chiedersi quando quella fetta grande, spaventosamente grande di elettorato si accorgerà che il politico non è l’esecutore acritico dei bassi istinti del popolino.

Viene da chiedersi quando e come abbiamo lasciato che la manifestazione dell’anti-politica toccasse la soglia del 40% di consensi; senza contare i voti dei 5 stelle, di cui pure bisogna rammaricarsi.

Viene da chiedersi, infine, quanto tempo rimane, alla luce della crisi, prima che le chiacchiere da bar dello Sport si tramutino in concrete esperienze di governo. 

A quel punto nemmeno l’immacolato Cuore di Maria potrà salvarci.


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