Come se non bastasse il decreto dignità (che col ritorno delle causali ha comportato un ulteriore irrigidimento del mercato del lavoro, un aumento del precariato e della disoccupazione, specie giovanile), l’ultima trovata del movimento 5 stelle è l’introduzione in Italia di un salario minimo.
La proposta dei grillini è di fatto un’estensione dei contratti collettivi di categoria e prevede un minimo orario di 9 euro lordi l’ora; per non essere da meno, il Pd propone invece un salario minimo orario di 9 euro netti (!), ma con la possibilità di esenzioni per alcuni settori. Entrambi i disegni di legge stabiliscono inoltre aumenti legati all’inflazione. La misura pensata dai 5 stelle interesserebbe tre milioni di lavoratori con un aggravio per le imprese che viene stimato spannometricamente dall’ISTAT in 4,3 miliardi (L’INPS invrce in 9,7 miliardi). L’istituto di Statistica prospetta una riduzione media degli utili d’impresa dell’1,6%.
Il salario minimo è presente nella stragrande maggioranza dei paesi occidentali (Spagna, Portogallo, Usa, Inghilterra, Francia ecc) con un livello che si attesta al 40/50% del salario mediano (si passa dai 2,65 dell’Ungheria ai 10,03 della Francia). Proprio qui sta il vulnus: se la proposta grillina fosse implementata, il salario minimo si attesterebbe all’80% circa delle retribuzioni medie, il livello più alto dei paesi Ocse.
Il salario minimo è uno strumento di per sé utile se finalizzato a combattere la povertà lavorativa (i cosidetti working poor, tra cui alligna la povertà, sono circa il 12% dei lavoratori). Come ha scritto Tito Boeri su Repubblica: “se stabilito a livelli bassi, il salario minimo può aumentare sia le retribuzioni effettive che l’occupazione perché stimola l’offerta di lavoro e impedisce ai datori di lavoro di pagare i lavoratori meno della loro produttività. Se, invece, viene stabilito a livelli più alti distrugge molti posti di lavoro. Quanti? Stime sull’Italia ci dicono che l’elasticità della domanda di lavoro al salario fissato dalla contrattazione è molto elevata: attorno a – 1. Questo significa che per un 10% di aumento del salario, l’occupazione si riduce del 10 per cento. E chi perde il lavoro in questi casi sono i giovani, le donne e i lavoratori precari, le fasce meno protette”.
In un Paese nel quale oltre l’80 per cento dei lavoratori dipendenti è coperto dalla contrattazione collettiva con salari orari ben superiori ai nove euro è verosimile che l’effetto inintenzionale di una norma siffatta generi da una parte un livellamento verso il basso dei salari (i datori di lavoro, per risparmiare, adeguerebbero le retribuzioni verso i nove euro anche di coloro per i quali queste sono superiori); dall’altra che le imprese che non sono in grado di far fronte all’aumento dei costi, ovvero di poter pagare un lavoratore nove euro, saranno costrette a ridurre l’orario di lavoro (tendenza che è già in atto), a licenziare e a passare al nero parte o tutto il lavoro svolto dal singolo lavoratore.
Se si volesse davvero approvare un salario minimo bisognerebbe fare in modo che questo sia fissato a una soglia ragionevole, onde evitare effetti dirompenti sull’occupazione (quindi 7/8 euro lordi l’ora); che “non interferisca in modo sostanziale con il funzionamento del mercato del lavoro di altre categorie già ben rappresentate” (Boeri dixit); che a stabilire la cifra non sia la politica ma una commissione tecnica (come fece Blair nel 1998) tenendo conto delle differenze di produttività – il salario non è una variabile indipendente ma è legato alla produttività aziendale – e di potere d’acquisto tra nord e sud. Inoltre il reddito minimo per essere accettabile dal mondo delle imprese dovrebbe essere accompagnato da una riduzione consistente del cuneo fiscale (in primis l’abolizione dell’IRAP), dall’affermaziome della contrattazione decentrata, da una diminuzione dell’ammontare del reddito di cittadinanza, che rappresenta un formidabile disincentivo al lavoro in particolar modo nel sud Italia (dove nel 43% dei casi i redditi sono più bassi dei 789 euro del reddito minimo grillino).
Non ho dubbi sul fatto che nessuna delle considerazioni sopra riportate potrebbe mai essere presa in considerazione dal governo gialloverde, che, nella sua insipienza, ha sempre dato mostra di avere una cultura profondamente dirigista, ostile al libero mercato e al mondo delle imprese – pur con accenti molto diversi tra i due partiti della coalizione di governo (la Lega nord ha nelle pmi la propria costituency elettorale) -, oltreché di essere indifferente a qualsivoglia critica o rilievo alla loro politica economica scellerata.