«La Russia rappresenta il peggior dispotismo a cui la civiltà ha permesso di sopravvivere, tranne forse quello della Turchia. L’Inghilterra rappresenta la libertà e il progresso anglosassone solo in misura minore rispetto al nostro governo [gli Stati Uniti, NdA]. Abbiamo molto in comune con gli inglesi. Non abbiamo niente in comune con la Russia.» Categorico e radicale: dipingeva così la Russia zarista di fine diciannovesimo secolo Joseph Pulitzer (Public Opinion, 21 novembre 1895). La divisione tra autocrazie e democrazie moderne era già chiara all’epoca. Le seconde necessitano di un percorso molto lungo e tortuoso per affermarsi nelle diverse società e culture, nonché nella mentalità dei cittadini. Il dispotismo, invece, con l’uso della violenza, s’impone abbastanza velocemente a tutti i livelli della società. Distrutta l’autocrazia zarista, ne è poi arrivata un’altra. Crollato il sistema semi-feudale, ci fu la brevissima stagione di Aleksandr Kerenskij, dunque la Rivoluzione d’ottobre e il trionfo di Lenin, che aprì una stagione di tirannia che durò per tre generazioni.
Quel Bolscevismo che aveva mai e poi mai aveva promesso democrazia ai russi, ma che imponeva un modello alternativo di società, forgiato nella violenza e nella verticalizzazione di un’organizzazione – il PCUS – che si sostituiva alle gerarchie zariste nel governo delle masse popolari. L’avvento del Comunismo sovietico di certo non ha aiutato a instaurare nella popolazione un’affezione per la democrazia. «Non è vero […] che, salendo al potere in Unione Sovietica, gli operai si siano “liberati”», ha scritto Mario Vargas Llosa (Contro la tribù), analizzando i lavori di Raymond Aron. Questi, «continuano a essere schiavi, non più dei capitalisti, bensì dei dirigenti politici, autoproclamatisi rappresentanti della Storia, che pagano loro salari miserrimi». Una volta imboccata la strada totalitaria, in un primo tempo la democrazia venne dimenticata; e difatti il PCUS non faceva neppure più finta che questa esistesse. La scomparsa di Lenin e la gerenza di Stalin impose un’opprimente partito-crazia, potere il partito. Partito che diventava Stato e regolatore del demos, del popolo.
Come Pulitzer, anche Bertrand Russell è stato spietato nei confronti della popolazione russa. «Provate a chiedervi come dovrebbero essere governati i personaggi descritti da Fëdor Dostoevskij e capirete», disse. Paradossalmente, Russell credeva che il dispotismo comunista fosse il sistema di governo migliore per i russi, ma certamente questo non avrebbe facilitato il loro percorso verso gli istinti democratici. E se è vero che, procedendo nel Novecento fino al 1991, la democrazia in Russia non è mai esistita, è altrettanto vero che oggi 1) alcuni in Russia la desiderano e 2) questa non deve essere per forza seguire i crismi della democrazia intesa dagli occidentali. Idem per il liberalismo, che Vladimir Putin ha giudicato obsoleto (Financial Times, 27 giugno 2019). Il liberalismo non presuppone la democrazia e in Russia si è visto solo parzialmente in ambito economico, dopo il crollo del 1991, quando la globalizzazione contagiò anche la neonata federazione.
All’inizio del nuovo millennio, molti intellettuali occidentali credevano che la Russia avesse intrapreso un cammino graduale verso la democrazia liberale. Negli anni dell’egemonia che gli Stati Uniti esercitavano in tutto il pianeta nel momento unipolare, la Russia era in qualche modo stata addomesticata, guardata in Europa con una serenità che non si vedeva da oltre un secolo. Il Giappone americanizzato, la Cina più aperta, il Primo Mondo aveva vinto la Guerra Fredda e imponeva il Washington Consensus. «Alcuni ottimisti pensarono persino che la Russia avrebbe seguito le orme della Germania del secondo Dopoguerra, abbracciando una politica pluripartitica e beneficiando di un economia di mercato regolamentata», spiegano Ivan Krastev e Stephen Holmes (La rivolta antiliberale). Sconfitto il grande nemico, le potenze occidentali avviarono dunque una silenziosa umiliazione nei confronti della Federazione Russa.
Il “modello” da seguire era quello liberal democratico di stampo capitalista e occidentale. Finalmente, nell’ottica del West, con l’arrivo di Internet, la liberal democrazia avrebbe conquistato anche la Russia. Gli anni di Boris Eltsin segnarono un breve periodo di ottimismo e illusione in questo senso. Molti osservatori del tempo non capirono che lo spopolamento dell’ex URSS non poteva che portare però a dubbi e rancori verso il modello “imposto” dall’Occidente. Democrazia è essere umiliati? Democrazia è perdere pezzi della propria nazione? Non stupisce dunque che il periodico ricorso all’espansionismo della Russia non sia solo un sintomo post-egemonico, ma una malinconica necessità che far leva sullo spirito nazionale per riacquisire un’influenza perduta (vedi il caso della Crimea). Secondo Demetrio Volcic (Est) «Eltsin ha instaurato un regime ibrido, caotico e autocratico e cerca ogni tanto l’unzione delle elezioni […] Le epurazioni dei suoi stessi collaboratori testimoniano che si è ben lontani dalla tolleranza». E dalla democrazia.
«Ogni volta che la Russia si apre al mondo, sembra vi sia un punto nel quale si scatena il panico i leader autoritari del paese tornano istericamente a chiudersi nel più totale isolamento», continuano Krastev e Holmes. In Russia, «le élite postsovietiche si limitarono a fingere di imitare le norme e le istituzioni occidentali. In realtà usavano la facciata delle elezioni democratiche […] al solo fine di preservare il potere, impadronirsi delle ricchezze del paese e bloccare […] riforme democratiche che avrebbero minacciato i loro privilegi e […] un ulteriore disgregazione territoriale. Erano impostori strategici. La Cina, invece, prendeva in prestito, apertamente o in segreto, i mezzi dell’Occidente, ma si assicurava che il percorso di sviluppo del paese conservasse le sue “caratteristiche cinesi”. Erano accaparratori ingegnosi.»
L’abbraccio democratico della Russia dei primi anni Novanta fu qualcosa di difficile, complesso e breve. Non compreso fino in fondo da gran parte della popolazione che diceva di volere democrazia e libertà, ma in realtà voleva solo i beni in stile occidentale. Ci vogliono generazioni per compiere un’efficace rivoluzione politica: ci vogliono cittadini intolleranti verso i macchinosi e corrotti apparati burocratici che si adattano ad ogni cambio di stagione politica. Le istituzioni sono importanti e vanno rafforzate, non sclerotizzate; l’URSS cadde per le sue contraddizioni interne e l’incapacità di generare autentico benessere economico, ma una vera democrazia non arrivò mai, neppure sotto il malatissimo Eltsin. Dalla fine dello Zarismo, si è passati all’internazionalismo comunista, dunque, oggi, al nazionalismo sovranista. Nessuno di questi approcci ha comportato elementi vagamente liberal democratici.
La tradizione russa vuole che il suo popolo sia un popolo di eroi. E non tutti gli eroi portano la (liberal) democrazia. Anzi: molti “eroi” fondano le loro azioni sulla violenza. Il nazionalismo panrusso prevede una forte mitizzazione sovrana e dunque chiunque voglia acceda al vertice dello Stato, deve fare pressione su questo sentimento. Che, combinato a quello che Krastev e Holmes definiscono “collasso senza sconfitta” dell’impero sovietico, si rivelò la chiave vincente per consolidare – e non limitare o circoscrivere – il sistema burocratico e statalista, che non è garanzia di libertà e democrazia, ma di blocco istituzionale e controllo dei padri-eterni dello Stato. Le perdite territoriali a seguito della sconfitta nella Guerra Fredda – un po’ come avvenne nella Pace di Brest-Litovsk nel 1917 – furono mal digerite dalla popolazione post-sovietica e rafforzarono lo spirito nazionalista – che prevede l’uomo forte, lo Stato tirannico, la repressione delle voci dissenzienti – nonché l’astio per la libertà e la democrazia.
Ancora Krastev e Holmes: «La foglia di fico della democrazia aiutò […] le élite postsovietiche a costruire, ipercriticamente, relazioni sociali con le indulgenti élite globali e a sistemare la propria famiglia e il proprio patrimonio al sicuro, fuori dalla Russia.» Oggi «la Russia finge di essere una democrazia», secondo Yuval Noah Harari (21 lezioni per il XXI secolo), ma sebbene l’ottantasette per cento della ricchezza sia concentrata nelle mani nel dieci per cento dei cittadini più ricchi del paese, è inaccurato dire che la democrazia non c’è in Russia per colpa dell’accentramento delle risorse nelle mani di gerarchi fraudolenti. La democrazia in Russia non c’è e non c’è mai stata semplicemente perché non c’è la cultura della democrazia e della libertà. Ad ogni recente occasione di tentare di democratizzare realmente il paese, questi è sempre caduto nel progressivo autoritarismo, con la più o meno complicità popolare e la decisiva influenza degli irremovibili burocrati.
Amedeo Gasparini