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Perché Israele dovrebbe occupare Gaza… di nuovo

***In occasione della mobilitazione di truppe israeliane verso Gaza abbiamo scelto di pubblicare su Immoderati due articoli, scritti da due autori diversi, uno a favore ed uno contro l’invasione di terra della Striscia***

Sono passate già due settimane dall’offensiva stragista lanciata dall’organizzazione islamista “Hamas” il 7 Ottobre e che ha provocato la morte di oltre 1400 persone, prevalentemente civili. Nel giro di pochi giorni l’esercito israeliano è riuscito a riprendere le aree urbane occupate dai miliziani palestinesi che si sono ritirati nei loro territori portando con sé più di 200 ostaggi, una parte dei quali con doppia cittadinanza.

Da allora il governo di unità nazionale con sede a Gerusalemme Ovest ha dato avvio ad una intensa campagna di bombardamenti principalmente nel nord della striscia di Gaza e si starebbe preparando, secondo i principali esponenti politici e militari, ad una invasione di terra volta a sradicare la presenza di “Hamas“, la cui ala politica dal 2007 amministra l’area con metodi dispotici con l’assistenza del “Movimento per il Jihad Islamico in Palestina” (conosciuto anche sui giornali italiani come “Jihad Islamica“), un gruppo salafita di proporzioni minori che come i loro alleati riceve finanziamenti da Iran e Qatar.

L’articolo in questione non vuole fornire un excursus sulle origini della conflitto israelo-palestinese, avendo già altri assolto con dovizia di dettagli tale impegno, né tantomeno si dilungherà sulle notizie di dubbia attendibilità diffuse dai mass media internazionali come il bombardamento dell’ospedale Al Ahli Arab da parte dell’aviazione israeliana.

Lo scopo, nella sua essenziale difficoltà, consiste nel motivare le ragioni per cui un intervento armato dell’IDF nella striscia non getterebbe ulteriore caos nella regione, come molti giornalisti e politici paventano, ma anzi aumenterebbe la sicurezza dei cittadini israeliani e potrebbe persino portare benefici alla popolazione di Gaza nel medio-lungo periodo.      

Cercherò quindi di stilare una lista sintetica delle principali obiezioni riguardo questa presa di posizione analizzandole nel dettaglio.

1) “Si rischia una catastrofe umanitaria“. Una delle ragioni per cui Israele non ha ancora lanciato la controffensiva terrestre sta’ proprio nella sua volontà di ridurre al minimo le perdite civili dando tempo alla popolazione di scappare nella parte meridionale della striscia dove i bombardamenti sono meno intensi e fornendo sia attraverso i social che attraverso il lancio di volantini sulle città palestinesi le indicazioni sul percorso da intraprendere per mettersi al sicuro. Poco tempo fa era circolata la notizia secondo cui uno dei corridoi umanitari fosse stato bombardato dall’aviazione che aveva fatto strage di persone in fuga. Dalle analisi dei segmenti era però stato appurato che la causa dell’esplosione fosse probabilmente una autobomba azionata da chi ha interesse ad impedire la fuga di potenziali vittime i cui corpi potevano essere riutilizzati per fini propagandastici. Eventi come questo servono a farci presente come al momento non sappiamo con certezza quanti civili siano stati uccisi finora e se le loro morti siano frutto di un deliberato disinteresse dei vertici dell’IDF, essendo nota l’attitudine dei gruppi islamisti palestinesi di nascondere missili nelle scuole ed usare ospedali e moschee come basi militari.

In appendice, sarebbe opportuno ricordare che nel corso di Inherent Resolve, come venne battezzata negli Stati Uniti l’operazione volta ad annientare lo Stato Islamico, la coalizione arabo-occidentale ha raso al suolo interi quartieri di centri abitati anche da centinaia di migliaia di persone. Mosul, tra le più antiche città al mondo, è stata distrutta per più della sua metà e una marea di persone innocenti sono rimaste carbonizzate o mitragliate per errore dai soldati nella frenesia dei combattimenti strada per strada contro i jihadisti. In quel frangente non si sono verificate particolari sollevazioni dall’opinione pubblica internazionale, essendo la lotta contro il terrorismo giudicata di primaria importanza per la nostra sicurezza.

2)”Hamas non può essere sradicata perché i suoi leader non vivono a Gaza”. Osservazione che presta il fianco a numerose critiche. E’ vero che gli esponenti dell’ala politica dell’organizzazione, come il Presidente Ismail Haniyeh, non risiedono da anni nella striscia facendo la spola tra i paesi fiancheggiatori come l’Iran ed il Qatar, ma quelli dell’apparato militare che sono tanto se non più importanti, sono rimasti in buona parte ancora a Gaza City dovendo visionare sul campo la logistica e la gestione degli ostaggi. Questo gruppo includerebbe anche il comandante supremo Mohammed Deif, che avrebbe perso diversi collaboratori negli attacchi aerei dei giorni trascorsi.

Dovrebbe essere chiaro, comunque, che in uno scenario in cui “Hamas” perdesse il controllo effettivo dell’unico lembo di terra amministrato, la sopravvivenza fisica dei suoi portavoce assumerebbe una importanza relativa non essendo essi particolarmente amati da larghi segmenti della popolazione locale per la loro corruzione ed inefficienza. Vale anche la pena notare come la distanza dei propri bersagli non sia mai stato un ostacolo insormontabile per i servizi segreti israeliani. Nel 2010 un importante leader islamista venne freddato nella sua stanza di hotel a Dubai da alcuni agenti nel Mossad ed anni prima i vari pianificatori del sequestro e dell’uccisione degli atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco furono rintracciati e colpiti in varie parti del mondo.

3)”Israele rischia di peggiorare la situazione come è accaduto in Afghanistan e Iraq”. E’ un parallelo che è stata talvolta posto, ma chi ha studiato in maniera approfondita i conflitti citati si renderà conto che esistono profonde differenze. Gli interventi degli Stati Uniti in quei paesi lontani, o anche quello di Israele in Libano, erano stati pensati come occupazioni temporanee per instaurare governi amici stabili non essendo possibile mantenere un ampio dispiegamento di forze in territori così ampii. Quei tentativi fallirono principalmente per influsso degli stati confinanti (il Pakistan in Afghanistan, la Siria in Libano, l’Iran e la Siria di nuovo in Iraq) che foraggiarono ampiamente le milizie ostili agli occupanti.

Nel caso di Gaza si starebbe parlando di una superficie di 365 km² (il Molise ne occupa 4.460 circa) che si affaccia per l’intera sua sponda orientale e settentrionale con Israele mentre l’altra è bagnata dal Mar Mediterraneo. L’unico stato arabo in contatto diretto con la striscia per 12 km² nella zona sud-ovest è l’Egitto, controllato da un regime militare apertamente ostile ad “Hamas” in quanto emanazione della “Fratellanza Musulmana“, il cui governo al Cairo è stato rovesciato nel 2013 dal Generale al-Sisi.

Inoltre il Valico di Rafah, principale se non unico luogo di transito per le merci e i profughi tra i due paesi, potrebbe essere facilmente presidiato e rinforzato dopo una eventuale conquista dell’IDF per arrestare un possibile flusso clandestino di armi gestito da Iran, “Hezbollah” o gruppi jihadisti minori operanti nel deserto del Sinai. Questa vigilanza assai ostica una costante e massiccia attività di guerriglia sul modello talebano qualora gli israeliani riuscissero a prendere il controllo dei porti nella zona e distruggere l’intricata rete di cunicoli sotterranei edificata dai miliziani palestinesi che saranno poi le operazioni che li impegneranno nei prossimi mesi.

4)”Chi prenderà il posto di Hamas nell’amministrazione di Gaza?” La questione più spinosa su cui neanche il governo israeliano ha ancora un piano preciso. Come già altri analisti hanno evidenziato, l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) guidata da Mahmoud Abbas è assai debole ed impopolare oltre che in pessimi rapporti con Benjamin Netanyahu. Non risultano possibili candidati di spicco per porsi alla guida di una giunta filo-israeliana, a parte Mohammed Dahlan, ex-leader del partito di Arafat ed Abbas Gaza costretto a scappare dalla striscia durante il colpo di stato con cui “Hamas” ha consolidato il potere nel 2007 dopo la vittoria elettorale dell’anno precedente. Da tempo in dissidio con la dirigenza dell’ANP Dahlan risulta essersi avvicinato ad al-Sisi ed al governo degli Emirati Arabi Uniti, in cui risiede, ma in una recente intervista ha negato la possibilità di un suo ritorno in politica giudicando ormai tramontata la soluzione dei due stati.

E’ comunque opportuno tenere presente come il territorio sia già stato controllato da paesi stranieri per lunghi periodi senza particolari disordini. Negli anni dal 1948 al 1967 Gaza fu di fatto un protettorato egiziano ed è poi passata sotto la diretta amministrazione degli israeliani in seguito alla loro avanzata fulminea nella “Guerra dei sei giorni” fino al 2005 in un arco di quasi quarant’anni, sebbene già con gli accordi di Oslo nel 1994 il Governo Rabin avesse cominciato una lenta smobilitazione per consegnare quelle terre ad “al-Fatah”, smobilitazione culminata con l’espulsione forzata di circa 8500 coloni ebrei nella striscia ad opera dell’IDF, così da bendisporre l’altra fazione verso il proseguo delle trattative.

Una permanenza delle forze israeliane non sarebbe quindi nulla di inedito e potrebbe benissimo durare fino al momento in cui i palestinesi saranno in grado di dotarsi di una classe politica credibile e pragmatica. Mettiamoci comodi.

5)”Sotto l’occupazione israeliana i palestinesi verrebbero perseguitati”. Per ribattere a questa preoccupazione, è sufficiente guardare nello specifico all’amministrazione dei territori palestinesi durante il precedente mandato israeliano. Secondo gli istituti economici specializzati dal 1967 il PIL Pro-Capite dei palestinesi nella West Bank risultò essere cresciuto esponenzialmente grazie agli investimenti del governo di Tel Aviv che avviò un suo personale “Piano Marshall” nell’area costruendo nuove infrastrutture ospedaliere, universitarie e scolastiche per la popolazione anche grazie ai fondi di finanziatori privati. Solo gli stati arabi petroliferi registrarono un tale aumento di benessere materiale in quell’arco di tempo. Purtroppo dal fatidico 1994 la nuova amministrazione locale guidata da Yasser Arafat si è dimostrata non all’altezza di gestire la fortuna lasciatagli, nonostante gli ingenti finanziamenti che l’OLP ancora oggi riceve dalla comunità internazionale e nel 2003 il PIL Pro-Capite della Cisgiordania risultava già precipitato rispetto ad undici anni prima.

Pur non disponendo di dati altrettanto dettagliati, si può asserire che investimenti simili a quelli attuati nella West Bank da Israele si verificarono anche all’interno della striscia, come testimonia l’alto numero di serre distrutte dagli arabi dopo la partenza dei coloni.

Dunque, facendo un raffronto con quel che è stata Gaza negli ultimi diciotto anni, possiamo veramente dichiarare con certezza che le condizioni di vita dei palestinesi peggiorerebbero sotto una solida dirigenza israeliana? Peggiorerebbero per l’80% dei suoi abitanti che già vivevano in povertà, nonostante la ricchezza incommensurabile dei loro leader? Peggiorerebbero le condizioni delle ragazze arrestate e picchiate dalla polizia religiosa di “Hamas” perché non rispettano la morale pubblica semplicemente alzando troppo la voce? Peggiorerebbero le condizioni di quei ragazzini allevati nell’odio e nella violenza nei campi di addestramento jihadisti?

E quale sarebbe l’alternativa, se non uno stillicidio scaturito dallo stato di assedio perpetuo di cui sarebbero sempre i civili a patire le conseguenze mentre i responsabili primari ne rimarrebbero solo scalfiti?

Restando in attesa di una risposta.

***È necessario invadere Gaza? Puoi leggere il parere di un autore contrario qui***


1 comment

dario greggio 02/11/2023 at 17:02

“che è stata talvolta posto”

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