Diciamocelo con franchezza, senza rabbia né rancore, è stato un referendum avvincente, da farci le 3:00 di mattina davanti alla maratona di Mentana.
Si sa i referendum e le elezioni britanniche fanno sempre questo effetto, forse perchè ci trasportano nei raffinati salotti del Reform club, forse perchè ci fanno perdere in quel vortice di colori ed umori che sono i due schieramenti opposti.
Addentrandoci in questo antro, nei giorni che seguono il referendum si è assistito ad una vera apocalisse, soprattutto all’interno dei due partiti tradizionali.
Dalle dimissioni di David Cameron, alla guerra di successione che ha investito il Partito Conservatore, fino alla sfiducia data dai laburisti a Jeremy Corbyn a i selfie multietnici post brexit di Sadiq Khan, che diciamocela tutta non la racconta giusta e c’è da scommettere che stia studiando per la leadership del partito, fino alla lotta fratricida che ha investito lo stesso.
Tuttavia, se la prospettiva di un’effettiva uscita dal Regno Unito può preoccupare o meno, a seconda delle vedute, non vi è da preoccuparsi per la sorte del sistema politico britannico.
Si tratta, infatti, di un sistema politico che ha avuto quasi cinque secoli per nascere, sedimentarsi, consolidarsi e radicarsi saldamente all’interno del paese. E nonostante evoluzioni e ricambi, il sistema bipartitico non è mai venuto meno.
La divisione tra frangia europeista e corrente eurocritica all’interno del Partito Conservatore sembra destabilizzante in quanto essa si è semplicemente acutizzata nei giorni immediatamente successivi al referendum; è un problema con la quale il partito deve convivere dal 1973, data di ingresso del Regno Unito nell’Unione europea.
Lo sbandamento nel quale versa il partito laburista è forse più delicato in quanto lo stesso labour pare essere uscito dalla consultazione referendaria con le ossa rotte: ha dovuto affrontare il fiasco delle scorse elezioni locali, è stato travolto dal vortice della strumentalizzazione mediatica che ha seguito l’omicidio di Jo Cox e ora, dopo la sfiducia a Jeremy Corbyn, si trova a dover sostenere il conflitto con il proprio elettorato. Difficile fare ipotesi circa il suo futuro, il meglio che ci si può augurare è la scelta di un leader che possa riproporre una transizione dal post- keynesianismo alla Terza via, sul modello di Tony Blair, richiamando i new labour, messi ai margini dalle epurazioni corbyniane.
Il fatto è che, sembra strano da credere, i due partiti sono a rischio di implosione per tre ragioni. La prima sta nel fatto che la polarizzazione tra queste due forze, a prescindere dai risultati, è stata molto forte anche nelle ultime due elezioni. Questa è una differenza significativa rispetto ai partiti tradizionali europei che, spinti da cause di forza maggiore, hanno dovuto costruire governi di grande coalizione, il che ha comportato inevitabilmente compromessi che hanno generato una convergenza centripeta, come mostra il caso austriaco. In altri casi l’allarme populismo ha generato patti di sostegno reciproco tra le forze tradizionali al fine di contrastare tale tendenza, ne è un esempio il secondo turno delle regionali francesi nelle quali il Partito Socialista, escluso dai ballottaggi, ha spinto i suoi militanti, simpatizzanti ed elettori a votare per I Repubblicani per contrastare l’avanzata del Fronte Nazionale.
La seconda ragione sta nel fatto che entrambi i partiti, questo già dal primo dopoguerra, hanno precocemente rinunciato ad un’ impostazione ideologica netta, pur rimanendo molto forti dal punto di vista organizzativo, preferendo seguire la via della personalizzazione e della leaderizzazione, via che nel resto d’Europa ha cominciato a prendere piede tra la fine degli anni ottanta e l’inizio degli anni novanta, ed in modo molto blando. E’colui che ottiene la leadership del partito, de facto, a dettare la linea e che su di essa riesce a compattarlo a prescindere dalle divergenze tra le varie correnti, che in un sistema del genere sono inevitabilmente presenti, numerose e con un’accesa dialettica tra loro.
La terza ragione sta nel fatto che, per ora, non vi sono alternative, né da una parte né dall’altra, o meglio vi sono ma sono incapaci di radunare un bacino di consensi grande tanto quanto quello dei due partiti. Lo Scottish National Party del primo ministro scozzese Nicola Sturgeon, nonostante gli ottimi risultati ottenuti sia alle regionali sia alle locali e nonostante i voti sottratti al Partito Laburista, è un partito il cui elettorato rimane fortemente concentrato e localizzato. Un discorso a parte va fatto per il Partito per l’Indipendenza del Regno Unito, il quale è frutto di una diaspora conservatrice, e dunque, essendo espressione di una sua ex corrente, non potrà mai attrarre tutto il suo elettorato.
Conservatori e Laburisti stanno certamente attraversando un periodo difficile, ma essi non imploderanno. I tempi (purtroppo o per fortuna) non sono ancora maturi.