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A cosa serve il partito dei Liberali e Liberisti Italiani – parte I

partito dei liberali e liberisti

L’ennesimo (supposto) tentativo di creare il partito dei liberali e liberisti è fallito, come ampiamente previsto da molti. Se nel Terzo Polo si intravedesse una vera iniziativa politicamente liberale, sarebbe materia controversa (e io per primo sarei pronto a metterlo in dubbio), ma oggi poco importa.

Molto meglio chiedersi a cosa dovrebbe servire un partito liberale di massa in Italia, per evitare uno dei problemi più gravi che attanagliano le altre iniziative attualmente in campo. Mi riferisco, appunto, alla mancanza di chiarezza sul loro collocamento nel contesto della storia culturale e politica del nostro paese, che fanno scadere qualsiasi prospettiva politica in un discorso puramente economicistico, che ne limita moltissimo la vitalità.

Cominciamo allora, senza troppi giri di parole, andando al cuore della questione: un partito liberal- liberista, è necessario, oggi più che mai, per risolvere il problema storico dell’Italia, paese dotato di una forte unità culturale e di una altrettanto tenace frammentazione politica, che si traduce in uno stato disfunzionale.

Le origini degli Italiani

La memoria ci inganna se pensiamo di essere eredi diretti dei romani; etnicamente e culturalmente siamo quel popolo che Carlo Magno portò nella nascente tradizione dell’Occidente politico e culturale, sanguemisto tra l’eredità dei latini e i geni delle popolazioni slave che chiamiamo Longobardi. Invasori che si fecero cristiani e che adottarono il diritto romano, senza però abbandonare le loro più importanti istituzioni: la tribù a base familiare, la visione retributiva della giustizia fondata sul diritto al risarcimento (includendo la vendetta e la faida), l’individualismo, refrattario al potere calato dall’alto (fosse anche da altezze “divine”). Ma siamo anche quel popolo delle coste affacciate sul mediterraneo che invece si amalgamò con i “turchi” d’oriente, nemici giurati dello scontro di civiltà, assimilandone pregi e difetti.

Un popolo che nel vuoto di potere generato nella penisola dalla crisi dell’Impero a trazione germanica (e dalle Alpi, bisogna dire), ha sperimentato quel crogiolo fatto di violenza, lotte, ma anche genio e iniziativa, che ha dato forma alle più importanti istituzioni politiche del paese: il comune al nord e i regni del centro – quello della chiesa di Roma – e del Sud – il regno normanno.

La storia dell’Italia dei nostri giorni nasce da lì; ed è fatta da un destino guidato da forze che hanno spinto in una medesima direzione, ma con intensità diversissima.

Dalle origini all’Italia di oggi

Da una parte il processo di unificazione culturale della penisola, guidato dalla creazione di una lingua nazionale e quindi di una letteratura italiana, e di un’arte ugualmente fortemente identitaria.

Una forza irresistibile e tumultuosa, favorita dalla sostanziale omogeneità etnica della popolazione (ricordiamo che i longobardi giunsero fin in Calabria) e dalla pervasività sociale della religione cristiana, che impose l’idea di Italia nella mente e nell’immaginario delle élite in prima battuta e via via in quello di tutta la popolazione.

Dall’altro la spinta alla concentrazione politica, che provocò prima la morte del comune medievale e la nascita della signoria, poi la creazione dei cosiddetti stati preunitari. Una storia che, soprattutto nel confronto con la vicenda culturale, appare frutto più di necessità che di vera voglia. Stretta com’era da una parte dalla necessità di sicurezza, funzionale al nuovo mondo meno autarchico, e dalla pressione esterna causata dalla creazione degli stati nazionali europei; dall’altra dall’ambizione mascherata da autonomia, impossibile da mettere in discussione dato l’equilibrio delle forze in campo dalle forti tradizioni politiche locali, fomentate dai notevoli interessi economici nel paese sostanzialmente più ricco d’Europa almeno fino alla metà del ‘500 e, infine, dalla forza politica della Chiesa romana, in grado di dettare indiscussa le sue regole ai governanti d’Europa, almeno fino allo scisma di Enrico VIII.

L’Italia preunitaria è il frutto di questo destino a “doppia velocità”: una “pura espressione geografica” con il sentimento di un destino comune, di una percezione di grandezza, frustrati dalla mancanza di unità politica.

Il senso del declino economico e del primato perduto, dell’inferiorità rispetto agli altri popoli vicini, di vergogna per la vicenda politica nazionale, sono il frutto di questo squilibrio, di questa dicotomia tra l’unità culturale, percepita come piena e finanche gloriosa, e quella politica, asfittica e mai davvero raggiunta.

La nascita del liberalismo in Italia

Il movimento liberale nasce in Italia in questo contesto, figlio dell’onda lunga delle rivoluzioni americana e francese e degli eserciti di Bonaparte, che concretizzarono nella lotta politica e sociale le idee dell’Illuminismo.

Non sta a me dirlo, ma il liberalismo nasce da una idea di uguaglianza ed è il più titolato a rappresentarla e ad interpretarla. In tutta Europa le classi più attrezzate, quindi le élite produttive e intellettuali, dalla fine del ‘700 in poi hanno cominciato a sentire le “concentrazioni del potere” come qualcosa da combattere. Cominciando dal privilegio, perché ammetteva che, per legge, si assegnassero diritti diversi alle persone non solo in funzione della provenienza familiare, ma anche su base economica – vedi l’esperienza americana. E anche perché le classi privilegiate a quel tempo non erano più utili e avevano assunto carattere parassitario (difficilmente nel XI-XII secolo qualcuno si sarebbe sentito in dovere di abbattere i privilegi dei cavalieri – deputati alla sicurezza – o dei monaci – deputati alla preghiera che ripuliva dai peccati mondani, di cui però non si accettavano eccessi e arbitrio).

In Italia, quasi subito, l’idea liberale si fuse con quella nazionale. Un po’ perché il sovrano di cui si doveva limitare il potere era straniero; ma soprattutto perché il “mondo nuovo”, il cambiamento, per le élite innovatrici italiane era dato dalla soluzione del problema storico, aggiungendo l’unità politica a quella culturale (già raggiunta) e, possibilmente, adeguare la prima alla grandezza percepita della seconda.

Personalmente penso che i padri del risorgimento (Cavour, Mazzini, Garibaldi, i milanesi e le altre figure che stanno nei libri di storia), tanto diversi per storia e pensiero, fossero accomunati dal liberalismo, inteso come cultura avversa alle concentrazioni di potere e al privilegio legale innanzitutto, e dal patriottismo, ossia la voglia di risolvere il problema italiano, di una unità culturale che non si era fatta stato.

Superiamo le vicende storiche che hanno visto la realizzazione concreta dello stato unitario (che certamente hanno beneficiato di un contesto europeo di forte scontro tra potenze e dei calcoli sulle convenienze contingenti), e la performance dello stato liberale nel sessantennio post-unitario, per focalizzarci sul momento del suo collasso. Un momento che, paradossalmente, vede compiersi una delle maggiori conquiste del liberalismo, ossia la democrazia, con il suffragio universale (maschile) e finanche l’avvio di forme di protezione sociale.

Il fallimento delle élite liberali italiane

Eppure le élite italiane, tra cui le classi politiche liberali, scelsero di fare un passo indietro, proprio verso una maggiore concentrazione di potere; addirittura accettarono di rinunciare alla democrazia e al principio di uguaglianza di fronte alla legge (vedi le leggi sul meticciato e sulla razza, l’abolizione delle libertà politiche, ecc.). Perché? Cosa non aveva funzionato?

Certo il “biennio rosso” e la paura della rivoluzione bolscevica, magari perpetrata con la forza delle “masse” nel chiuso dell’urna elettorale; certo la Grande Guerra, che aveva inoculato la sua carica di violenza nella società e quindi nella lotta politica; certo la lotta economica di classe, con la borghesia industriale e agraria da una parte e gli operai e i braccianti dall’altra; certo la Chiesa, desiderosa di rinverdire il suo potere temporale e timorosa di perdere quello morale, nel cosiddetto rivolgimento dei costumi morali.

Ma in fondo a seppellire l’esperienza liberale fu la sua incapacità a risolvere il problema politico dell’unità d’Italia, che non si era fatta stato.

Le istituzioni della piccola monarchia sabauda non erano riuscite a reggere il peso della frammentazione politica del Belpaese, aggravata dall’emergere del movimento operaio e delle istanze sociali derivanti dalla modernità. E le classi politiche liberali non erano riuscite a consolidare una visione politicamente concreta per riformare quelle istituzioni, anche per il contraltare della monarchia, credendo di poter risolvere i problemi interni attraverso la politica estera, ed in particolare attraverso la proiezione di potenza (l’avventura coloniale e poi la I Guerra Mondiale).

Questo articolo si compone di 2 parti. La seconda verrà pubblicata domani.

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