Un anno fa moriva, ad 84 anni, uno dei più grandi decani del giornalismo italiano: Giampaolo Pansa.
Una vita intera dedicata al giornalismo. Come amava ripetere, nessun altro giornalista più di lui aveva cambiato giornali (e che giornali!).
Gli esordi, nel 1961, alla Stampa di De Benedetti (il mitico Gidibi, descritto nei suoi libri come un piccolo dittatore), poi Il Giorno di Italo Petra, il Messaggero, di nuovo la Stampa diretta da Ronchey; il Corriere di Piero Ottone, con l’accordo tacito che sarebbe rimasto lì fin tanto che sarebbe durata la sua direzione; infine la chiamata nella da poco nata Repubblica di Scalfari, e culminata nella vicedirezione. Una stagione gloriosa durata complessivamente 33 anni (dal 1977 al 2006) e condensata nel libro “La Repubblica di Barbapapà”. La mancata direzione di Repubblica sarebbe stato il suo più grande cruccio professionale.
I settimanali: Epoca, Panorama, ma sopratutto L’Espresso, dove coniò, dapprima sotto la direzione di Valentini, la rubrica Chi sale e chi scende, e in seguito, condirettore con Rinaldi, il celeberrimo Bestiario. Più ancora di Scalfari, che fu per lui un vero e proprio mentore, Rinaldi è il direttore con cui ebbe maggiore sintonia politica e umana (a lui è dedicato l’ultimo, commovente articolo uscito su Repubblica nel 2007). Poi il Riformista, Libero, La Verità di Belpietro, Panorama; ed infine, il ritorno al Corriere.
Ma vanta anche un altro record. Era uno scrittore infaticabile ed estremamente prolifico con all’attivo più di 60 libri pubblicati nel corso della sua carriera (nemmeno Bruno Vespa lo supera). L’idea di scrivere un libro all’anno gliel’aveva fornita Erich Linder, uno dei più importanti agenti letterari italiani. Tra i migliori, vanno segnalati “Comprati e venduti” e “L’utopia armata“.
Pansa era un fuoriclasse, uno di quei rari esempi di scrittori prestati al giornalismo. Una prosa scorrevole, a tratti sferzante, frasi brevi e concise. Un linguaggio accessibile a chiunque. Leggere un suo libro o articolo era come tracannare un buon vino d’annata.
Memorabili i suoi resoconti dei congressi di partito, il gusto per i dettagli, immortalati grazie al binocolo (la camicia di Craxi impregnata di sudore, che preannuncia la sua decadenza politica e la fine di un’epoca), le pagine sul terrorismo (era uno dei bersagli della brigata 28 marzo: scampò fortunosamente a un attentato perché Scalfari, influenzato, gli ingiunse di andare a Roma per sostituirlo). Fu tra i primi a riconoscere la minaccia per l’ordine democratico rappresentata dalle brigate rosse; che non erano un’invenzione della propaganda democristiana, avevano una matrice naturaliter di estrema sinistra (in polemica con Giorgio Bocca, convinto del contrario) e riscuotevano simpatie persino fra gli operai della Fiat di Mirafiori.
Gli scoop (lo scandalo Lockheed, piazza Fontana, la celeberrima intervista a Berlinguer in cui il leader comunista dichiara di sentirsi più a suo agio sotto l’egida della NATO che di Mosca), l’incipit folgorante per raccontare la frana del Vajont – “vi scrivo da un Paese che non c’è più”. I nomignoli icastici affibbiati a partiti o leader politici (la balena bianca, l’elefante rosso, il giglio rosso, Dalemoni ai tempi della bicamerale, sua emittenza Berlusconi, Bertinotti ribattezzato il parolaio rosso, il bullo fiorentino in luogo di Renzi, Capitan fracassa per indicare Salvini).
Formidabile la riposta che assestò a D’Alema in un suo bestiario: “l’unico dato certo è che sto a sinistra da più tempo di D’alema perché ho 14 anni più di lui. E a proposito della sinistra ho visto più cose, ho letto piu libri, ho conosciuto più gente”.
Politicamente era un socialista filo-azionista (si considerava allievo di Galante Garrone). Non era qualunquista, ma da tempo aveva smesso di votare disgustato dall’andazzo politico ed esprimeva opinioni rabbuiate sul futuro dell’Italia; detestava quasi tutti i politici che si erano avvicendati negli ultimi anni, Renzi in primis, ma più ancora Salvini al quale ha dedicato il suo ultimo pamphlet (Il dittatore, uscito quest’estate). Ci voleva proprio Salvini per riportarlo alle urne dopo lustri di diserzione: “Il capo del Carroccio è davvero un esemplare politico del nostro tempo; furbastro, volgare, pronto persino a sfidare il ridicolo pur di far parlare di sé. In lui non c’è più nulla della vecchia destra. Che cosa ne avrebbero detto Scelba, Almirante o Montanelli?”.
Il nome di Pansa è legato indissolubilmente al cosiddetto revisionismo. Il sangue dei vinti, pubblicato nel 2003, scatenò un profluvio di reazioni e polemiche veementi; gli valse l’accusa di strumentalizzare la resistenza – a cui aveva dedicato la tesi di laurea, 800 pagine, con tanto di pubblicazione di stampa – per imbastire un’operazione commerciale e vendere copie. Ivi riportava in auge, in forma di romanzo storico, gli eccidi e le vessazioni perpetrate dai partigiani nei confronti dei repubblichini, attingendo a piene mani dai libri di Pisanò. L’opera venne stigmatizzata, non a torto, dal consesso degli storici di professione, e gli procurò l’ostracismo del gruppo l’Espresso/Repubblica. Giorgio Bocca lo accusò, con toni oltremodo virulenti, di essere un fellone, svendutosi alla destra berlusconiana (tra i due non è mai corso buon sangue; nel 2006, quando Bocca morì, Pansa commentò lapidario: “non ci mancherà”…). Per inciso, come ha fatto notare Paolo Di Paolo: “Alla sua morte, soprattutto in rete, sembrava che avesse scritto solo quel libro. Ma questa, in fondo, è semplice ignoranza; e c’è molto da leggere, da studiare, da capire nel gran lavoro del Pansa di oltre mezzo secolo. Nel rumore che ha sempre fatto la sua prosa”.
Il sangue dei vinti, primo di una lunga serie di libri sull’argomento, il cosiddetto “ciclo dei vinti” ebbe un successo clamoroso – ha venduto oltre un milione di copie, diventando un long seller – e segnò per Pansa uno spartiacque: il divorzio dal mondo di sinistra, dal suo lettorato tradizionalmente progressista, in favore di quella destra che aveva fieramente avversato ai tempi in cui faceva ancora parte del gotha del gruppo di Scalfari, Caracciolo, De Benedetti (quando nel 1990 Berlusconi si impossessò di Panorama, Rinaldi e Pansa si dimisero all’istante). Un destino simile, ma a parti invertite, a quello che toccò a Montanelli, prima ripudiato e osteggiato da quegli stessi ambienti progressisti che successivamente, a cavallo degli anni 90, lo adottarono in funzione antiberlusconiana.
Innervato di una vis polemica ragguardevole, di un carattere puntuto e pugnace, bizzoso, smodatamente egolatrico come ogni grande giornalista di razza, impetuoso e senza peli sulla lingua, ha passato gli ultimi anni a sfornare articoli e libri uno dopo l’altro per regolare conti e togliersi sassolini dalle scarpe nei confronti dei compagni di sinistra che lo avevano ripudiato ed emarginato; e seguitare il filone resistenziale, coadiuvato dalla moglie Adele Grisendi, sindacalista della CGIL, conosciuta nell’89 durante un viaggio in treno; e rievocare aneddoti e ricordi – ultimamente, va detto, in maniera sempre più ripetitiva – di una vita ricchissima di spunti. I giudizi talvolta grossolani nei confronti di colleghi e politici, la tendenza a riscrivere i fatti in maniera vittimistica o distorta dell’ultimo Pansa non cancellano quanto di buono realizzato in una carriera giornalisticamente straordinaria. L’ultima polemica con Belpietro, che gli aveva censurato un pezzo al vetriolo su Salvini, innescò le sue dimissioni immediate.
Tre anni fa la vita di Pansa era stata funestata dalla morte del figlio Alessandro, ex ad di Finmeccanica. In suo ricordo scrisse una lettera straziante (“come posso credere a un Padreterno che ha preso lui anziché prendere me”) pubblicata da La Verità in cui rivelava, tra le righe, di non sapere quasi nulla di lui, di averlo trascurato senza vederlo crescere a causa di una carriera giornalistica che assorbiva tutto il suo tempo. Forse ora potranno ricongiungersi.