Qualche settimana fa l’Associated Press, una delle principali agenzie di stampa internazionali, ha pubblicato tramite l’account dedicato al suo StyleBook un tweet contenente un consiglio per un uso più inclusivo del linguaggio, suggerendo di evitare l’utilizzo di etichette precedute dall’articolo “the” per riferirsi a categorie sociali (ad esempio “the poor”, “the mentally ill”). A queste espressioni sarebbero da preferire costruzioni come “people with mental illness” e tale scelta sarebbe motivata dal fatto che etichette di quel tipo sono “generiche e spesso disumanizzanti”.
Nonostante l’autorità di cui gode l’Associated Press Stylebook, il manuale d’uso della lingua inglese considerato un punto di riferimento da moltissimi giornalisti e non, il tweet è stato accolto da molti con ostilità. La ragione principale è che tra gli esempi, insieme a quelli già citati, figurava l’etichetta “the French”. Questo fatto da una parte ha suscitato ironia in coloro che si sono interrogati su quale formulazione alternativa a “i francesi” possa essere utilizzata, proponendone scherzosamente diverse. Dall’altra, ha provocato il risentimento di altri (come il quotidiano Le Monde), che hanno percepito come un’offesa quella di inserire i francesi accanto a categorie sociali stereotipicamente connotate in maniera negativa. Le critiche si sono spinte al punto da indurre l’Associated Press a cancellare il post.
Va detto però che, francesi a parte, gli sforzi in direzione di un linguaggio più inclusivo sono sistematicamente presi di mira da una parte di popolazione diventando quindi motivo di dibattito. Basti vedere la discussione circa l’utilizzo dell’asterisco o della schwa per evitare di marcare il genere e di utilizzare il maschile sovraesteso, oppure la scelta da parte di alcune donne di non utilizzare la declinazione al femminile per mestieri e cariche. L’ultimo caso rilevante è quello del(la) Presidente Meloni.
Al di là di quelle di natura più tecnica, le obiezioni sollevate tendono a minimizzare il problema, sostenendo che le disuguaglianze si combattono nei fatti, non con il linguaggio, e che le questioni su cui concentrarsi relativamente ai problemi di genere sono certamente altre. Probabilmente a molti queste richieste risultano semplicemente fastidiose, manifestazione di un politically correct percepito come opprimente e censorio e quindi liquidate con un “non si può più dire niente”.
Se è vero che non è sufficiente cambiare il linguaggio per risolvere le discriminazione, questo certamente non significa che farlo non serva a nulla. È ricorrente nella storia della filosofia l’idea che la lingua, con la sua grammatica, abbia un’influenza su ciò che le persone pensano, e che quindi differenze nella lingua comportino differenze nei pensieri. Questa intuizione, escludendo alcune sue declinazioni estreme secondo cui ci sarebbero differenze radicali e incommensurabili tra le visioni del mondo di persone di lingue diverse (il cosiddetto relativismo linguistico), è certamente valida. Il pensiero stesso è possibile soltanto grazie alla lingua ed è quindi impensabile che non venga in qualche modo orientato da essa. L’immagine che abbiamo della realtà, i concetti che utilizziamo per descriverla, la sua divisione in categorie, sono fatti anche linguistici. Questo vale ovviamente anche per le categorie sociali, ed è quindi evidente come il linguaggio abbia importanza nel modo in cui rappresentiamo gli altri, spesso un’importanza in negativo.
Un caso interessante in proposito, oggetto di studio della filosofia del linguaggio negli ultimi anni, è quello dei generici. I generici sono enunciati affermativi privi di un quantificatore esplicito, come “gli uccelli hanno le piume” o “i bambini fanno tante domande”. Queste espressioni, dunque, attribuiscono una proprietà ad un insieme di individui, senza specificare quanti di questi manifestino effettivamente quella proprietà. Se in certi casi la proprietà è vera per tutti (“i cani sono mammiferi”), in altri è vera solo per la maggior parte (“le tigri hanno le strisce”), mentre in altri nemmeno per la maggior parte (“i corvi depongono le uova” è vera, anche se a deporre le uova è solamente una parte degli esemplari femminili fertili, quindi certamente una minoranza della totalità dei corvi.)
Su questa ambiguità poggia una caratteristica di cui sono dotati i generici, caratteristica che li rende potenzialmente problematici e pericolosi: l’asimmetria inferenziale. Si è osservato infatti, tramite test sperimentali, che dato un enunciato e come “gli X sono Y”, il numero di X che manifestano effettivamente la proprietà Y necessario alle persone per ritenere vero l’enunciato e è spesso minore del numero di X che, una volta accettata la verità di e, le persone si aspettano manifesti Y.
Un esempio può aiutare a chiarire. Potremmo usare senza rischiare troppo di essere contraddetti la frase “il morso dei serpenti è velenoso”, nonostante le specie di serpenti velenosi siano più o meno il 20 per cento soltanto, e questo anche se il nostro interlocutore fosse a conoscenza della percentuale. Se però ci viene detto, presentandolo come un fatto, che i serpenti sono velenosi, l’aspettativa implicita che si genera in noi è che le specie di serpenti velenosi siano ben più del 20 per cento. È questa differenza a costituire l’asimmetria.
La pericolosità di questa proprietà dei generici si manifesta nei casi in cui essi riguardino categorie sociali: è evidente come i generici costituiscono degli strumenti molto potenti nella costruzione di stereotipi. Ad esempio, l’idea che i musulmani siano terroristi potrà diffondersi senza troppi problemi tra molte persone, con l’effetto di distorcere la percezione che queste hanno dell’islam, portandole a pensare che tra i musulmani ci siano molti più terroristi di quanti effettivamente ce ne siano.
Ma c’è di più. I generici non solo favoriscono la formazione di stereotipi, ma hanno un ruolo anche nell’esprimere e rinforzare il pensiero essenzialista, cioè l’idea che ci siano delle proprietà che caratterizzano una certa categoria di individui derivanti dal possesso di una natura (essenza) comune che li identifica e distingue dagli altri. Ovvero, i membri di un gruppo hanno determinati comportamenti, disposizioni, idee perché sono “fatti” in un certo modo. E così, nel dire che i musulmani sono terroristi si può veicolare l’idea che tutti condividano una particolare disposizione ad esserlo, anche se questa trova realizzazione solo in alcuni.
Allo stesso rischio di essenzialismo sono esposte anche le etichette, e non è un caso che i generici nella maggior parte dei casi le includano. Riferendosi ad una categoria di persone come ad un’entità unitaria, sottolineandone l’uniformità sotto certi aspetti, si rischia di trascurare l’unicità degli individui che ne fanno parte e la loro irriducibile diversità. Il processo di essenzializzazione è in sé negativo, al di là del fatto che la categoria in questione sia connotata positivamente o negativamente, in quanto distorce e semplifica la realtà, appiattendo la pluralità di dimensioni degli individui. Ed è per questo motivo, come peraltro è stato spiegato dalla stessa agenzia, che l’Associated Press ha sconsigliato anche etichette come “the French” e “the college-educated”, che si riferiscono a categorie non soggette a sistematiche discriminazioni.
La domanda circa quanta parte abbia il linguaggio in questo processo è certamente importante, ma la sua risposta non è decisiva nel determinare l’atteggiamento che dovremmo assumere: il solo riconoscere in che modo esso può avere (e di fatto ha) un ruolo dovrebbe bastare a farci mettere da parte il benaltrismo e prendere sul serio la questione.
1 comment
Personalmente io utilizzo il concetto di “statistica” (e mi stupisco del fatto che nessuno la usi…): ossia, se x persone su 100 appartenenti a una certa categoria sono pericolose (per motivi vari) allora ritengo giusto non discriminarli ma quantomeno alzare il livello di cautela. Esempio: i calabresi sono *** (varie etichette applicabili), ergo se devo farci degli affati insieme, sto più attento.
Ho una mente molto matematica e quindi il calcolo delle % mi viene benone ;) e preciso.