È il 9 novembre 2010, il regime di Mu’ammar Gheddafi, ancora potente in Libia, impone oppressione, detenzioni arbitrarie e torture sulla propria popolazione. Nello stesso momento un uomo di mezza età, sicuro di sé, prende la parola in una stanza affollata. Egli afferma che la Libia ha una rispettabile esperienza democratica, e che tale caratteristica ha permesso lo sviluppo dei diritti umani nel paese. Non sarebbe così tanto preoccupante se quell’uomo non fosse il rappresentante della Siria presso il Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite. Non sarebbe così grave se questo intervento non fosse stato seguito da altri similari da parte dei rappresentanti di Palestina, Arabia Saudita, Cuba, Iran, Egitto e Pakistan. Questi interventi fanno parte del procedimento di revisione sul rispetto dei diritti umani introdotto dalle Nazioni Unite nel 2006 e che prende il nome di Universal Periodic Review.
La Universal Periodic Review (d’ora in poi UPR) opera su un ciclo di 4 anni, in cui tutti gli Stati membri devono essere revisionati, ed è divisa in 5 fasi. Nella prima fase vengono presentati i documenti che fungeranno da base probatoria per la dimostrazione della situazione umanitaria nel paese. Successivamente i rappresentanti dei vari paesi membri iniziano un dialogo interattivo in cui vengono fatte le raccomandazioni allo Stato sotto revisione. Questa fase dura solo 2 ore. Nella terza fase il paese revisionato è libero di accettare o rifiutare le raccomandazioni che gli sono state rivolte, tale libertà è a mio avviso il primo momento in cui la UPR mostra la sua inefficacia. Nel 2011 infatti, il Venezuela rifiutò ben 38 raccomandazioni, tra le quali vi erano l’indipendenza dell’organo giudiziario, la libertà di stampa e la protezione delle organizzazioni non governative. In seguito un gruppo di tre relatori chiamato troika compila un documento riassuntivo che raccoglie tutte le raccomandazioni e per ognuna di esse viene specificato se sono state accettate o rifiutate dallo Stato revisionato, questo documento viene poi adottato dal Consiglio per i Diritti Umani. L’ultima fase ha luogo nel ciclo successivo, in questo infatti si va a verificare se lo Stato ha implementato le raccomandazioni accettate; è da notare che non vi è alcuna sorta di sanzione nel caso in cui lo Stato non abbia eseguito i progressi promessi.
Nel corso degli anni la UPR ha mostrato tutta la sua inefficacia. Esaminiamo le cause principali: innanzitutto bisogna notare che l’ONU non è un organismo dotato di autorità sovranazionale, ma è un organo cooperativo. Questo fa sì che solo lo Stato revisionato possa implementare le raccomandazioni che ha ricevuto e che quindi non vi può essere un’imposizione esterna. Di conseguenza, ed anche a causa della natura non vincolante della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e della Carta delle Nazioni Unite, le raccomandazioni non sono legalmente vincolanti.
La UPR quindi, non avendo forza legale, basa tutta la sua efficacia su un meccanismo che potremmo definire di Public Shaming. Il processo di revisione infatti avrebbe come scopo l’incanalamento dell’attenzione dell’opinione pubblica internazionale sulle violazioni dei diritti umani che si verificano nello Stato revisionato, in modo che tale paese sia spinto almeno a promettere l’eliminazione di tali violazioni. A mio avviso questo sistema è totalmente inefficace e ne espongo le ragioni. Prima di tutto, l’attenzione della stampa internazionale sulla UPR è bassissima, poche persone ne hanno sentito parlare o sanno cos’è. Io stesso ho avuto difficoltà a reperire documenti che riportassero i vari interventi e raccomandazioni che hanno luogo durante il procedimento. Trovo questa mancanza di attenzione davvero inspiegabile. In aggiunta, gli Stati che affrontano la revisione adottano varie strategie per evitare critiche. Una prima strategia di questo tipo è presentarsi come infallibile. Cuba per esempio si è sempre mostrata come un paese in cui non i diritti umani non venivano violati e per questo ha sempre rigettato le raccomandazioni che riguardavano il rilascio di prigionieri politici. Un’ altra tecnica è quella di accettare una lunga lista di blande raccomandazioni, o di rispondere in modo tale per cui non sia chiaro se lo Stato intenda o no implementarle. L’esempio più chiaro è rappresentato dalla dichiarazione dell’Arabia Saudita in cui afferma che la parità di genere è in conformità con la Shari’a: visto che in realtà non è così (nella Shari’a la donna deve obbedire al marito e solo l’uomo può terminare il matrimonio con una dichiarazione di repudio non motivata), non è chiaro se l’Arabia Saudita intenda adottare misure che rendano la donna pari all’uomo di fronte alla legge.
A mio parere però, è la mancanza di una critica adeguata all’interno del procedimento a rappresentare uno dei problemi più seri. Probabilmente questo è dovuto al meccanismo per il quale “se io non critico te, tu non criticherai me”. Molti Stati che violano diritti umani evitano infatti di criticare gli altri Stati per evitare di essere criticati a loro volta. In questo modo si spiegano le varie dichiarazioni sulla Libia presentate nell’introduzione di questo articolo. Inoltre l’influenza politica degli Stati confinanti non è da sottovalutare. Ad esempio, è molto difficile che uno Stato confinante o influenzato dalla Russia diriga l’attenzione sulle violazioni dei diritti politici che avvengono in Russia.
In conclusione è mia opinione che questo sistema sia totalmente privo di spessore e quindi inefficace. Al giorno d’oggi l’unica vera attività in protezione dei diritti umani è svolta dalle organizzazioni non governative. La questione controversa ora diventa: un altro sistema è possibile? Purtroppo credo di no, nessuno Stato accetterebbe un intervento coattivo esterno da parte di altri Stati e quindi si rifiuterebbe di sedere al tavolo delle trattative. Il cambiamento può solo arrivare dall’interno.