Primo weekend di pace dopo alcune settimane tese ad Hong Kong. Il 18 agosto infatti si è svolta la marcia pacifica per le strade del paese e si sono registrate solo alcune tensioni al confine, dove il governo centrale di Pechino ha schierato delle forze speciali.
Il movimento intra sociale senza un leader definito che sta portando avanti le proteste da mezzo anno, a partire da marzo, mese in cui Carrie Lam ha introdotto la legge sull’estradizione – poi ritirata – per la prima volta, non accenna a fermarsi. Nonostante gli avvertimenti di Pechino, nonostante lo spiegamento di forze speciali e assalti della polizia e di gruppi violenti, i dimostranti sono tornati in piazza ancora una volta. Le richieste sono aumentate: dalla controversa legge siamo passati al suffragio universale, l’amnistia per i dimostranti arrestati e l’apertura di un’inchiesta sulla violenza della polizia. Le richieste sono diventate di più ampio respiro e riflettono il malcontento della popolazione di Hong Kong che, dal 1997, vede la sua autonomia e libertà costantemente minacciate dal governo centrale cinese. Per quanto la maggior parte della popolazione sia di etnia cinese, negli ultimi anni c’è stato un forte calo nell’identificazione con questa cultura e si è puntato molto sulla preservazione della propria identità tradizionale, aggiungendo anche una maggior consapevolezza politica.
Dal giorno del passaggio dal Regno Unito alla Cina, allo scadere del contratto tra i due stati, si è instaurato un sistema chiamato ‘un paese, due sistemi’. Questo paradigma è stato introdotto per salvaguardare gli interessi economici della regione, basata sul capitalismo e sulla finanza, e per garantire un certo livello di autonomia alla popolazione (un esempio chiarissimo: ad Hong Kong è possibile commemorare gli eventi di piazza Tienanmen). Il sistema in vigore terminerà nel 2047 dopodiché il futuro dell’area sarà incerto. Anche per questo la tensione sia da un parte sai dall’altra si fa sempre più forte. Da un lato c’è una popolazione che non vuole cedere la propria indipendenza e tradizioni, dall’altra c’è uno stato forte che vuole procedere ad un’assimilazione completa. In mezzo c’è un vuoto politico e legislativo. Un vuoto che ha portato al malcontento, già presente nella penisola per il continuo contrasto tra oriente e occidente, per i prezzi delle case e per il divario tra ricchi e poveri.
Difficile prevedere cosa succederà. Le analisi più recenti hanno dimostrato e registrato un calo netto nell’economia di Hong Kong, con danni a tutti i settori. Addirittura il fondatore di Alibaba, Jack Ma ha deciso di aspettare prima di quotare alla borsa di Hong Kong la sua azienda multimilionaria. Questo non può certo fermare le proteste che si basano su una spinta di libertà ed eguaglianza. Tantomeno verranno fermate dal discredito lanciato via social da alcuni account falsi cinesi. Facebook e Twitter – per quanto siano vietati in Cina e dunque è stata usata una VPN – hanno bloccato il diffondersi di queste fake news. Con questa operazione si è anche rafforzato il consenso occidentale alle richieste del popolo di Hong Kong. Un occidente che dovrebbe imparare una lezione fondamentale dalle proteste: l’importanza della libertà e dell’autonomia di un popolo. Assoggettato agli interessi e volontà di due paesi forti da più di duecento anni, Hong Kong chiede solo la propria indipendenza e di essere finalmente rappresentato.