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Economia & Finanza

Lavorare meno per lavorare tutti: una pericolosa illusione

Lavorare meno per lavorare tutti è uno slogan che, in Italia, periodicamente ritorna in auge sin dagli anni 70; questo governo, uno dei più pencolanti a sinistra di tutti i tempi, non poteva non farne il proprio manifesto ideologico.

La proposta non arriva, come ci si potrebbe aspettare, dal partito più massimalista della coalizione (il movimento 5 stelle), ma dal Pd. In sintesi, con una legge depositata già a gennaio, si vorrebbe “redistribuire” il lavoro incentivando il part time (massimo 30 ore), tassando oltremodo gli straordinari; e imponendo ai nuovi assunti nella pa, ad eccezione dei medici, un massimo di 30 ore – Per inciso: ridurre l’orario per i nuovi assunti nella pubblica amministrazione è destinato a scemarne ulteriormente produttività ed efficienza (già a livelli infimi, tranne rare eccezioni).

Secondo i depositari della legge, si otterebbero così 750.000 posti di lavoro in più (!). Nel merito, non è chiaro come questo possa avvenire in un periodo di virulenta recessione: una contrazione del Pil, come quella che si profila di dieci punti percentuali o più, è destinata infatti a falcidiare svariate migliaia di posti di lavoro.

Secondariamente, una proposta siffatta sconta l’illusione, dirigista, che basti regolamentare tramite decreto per creare lavoro: così non è: in un’economia di mercato, lo Stato, anziché intralciarle, dovrebbe pensare unicamente a come creare le condizioni più propizie affinché le imprese possano operare al meglio, liberando gli spiriti animali del capitalismo; ma soprattutto rivela una concezione del  mercato del lavoro come fosse una sorta di agglomerato rigido  e immutabile (l’economista Sandro Brusco ha coniato il termine “sistema superfisso”), per cui se qualcuno non lavora è colpa di chi lavora troppo oppure che ogni posto di lavoro occupato da un lavoratore anziano può essere rimpiazzato da un lavoratore giovane (talché conviene anticipare la pensione).

La tesi sottostante è che limitare coattivamente il numero delle ore per lavoratore permette di creare nuovi posti di lavoro. Ma è una tesi fallace. L’evidenza scientifica assevera che laddove si è fatto, ciò non si è tramutato in un aumento dei posti di lavori disponibili. La Francia, prima con Mitterand e poi con Aubry – che ha introdotto le famose 35 ore – è un caso da manuale: a una diminuzione d’imperio delle ore lavorate, non è seguito un aumento dei posti di lavoro. Difatti si è dovuti tornare indietro, introducendo delle deroghe e dei nuovi sussidi per le aziende. Esiste un unico caso in controtendenza, dove l’occupazione è aumentata, ed è il Portogallo (il monte ore era però molto elevato, 44, ridotte a 40, e trattandosi di una riforma composita non è nemmeno certo che la causa sia da ascrivere alla diminuzione dell’orario di lavoro). Tito Boeri, sul Foglio, ha commentato sostenendo che ridurre l’orario di lavoro, a salario invariato, fa aumentare i costi delle imprese ed equivale a tassarle (giacché il lavoro non è una variabile indipendente). Ciò che conta è la produttività del lavoro, che in Italia è stagnante da un ventennio abbondante. Se la produttività è elevata, un’impresa può decidere, attraverso concertazioni con il sindacato, di far lavorare i propri dipendenti meno ore mantenendo lo stesso salario (come avvenuto con la Wolkswagen in Germania), ma sono casi isolati e sporadici.

Infine, come si può pensare di affrontare (e uscire da) una recessione imponendo un part time di massa (la proposta Pd perlomeno non è a parità di salario), col rischio concreto di gettare in povertà i neo assunti che ne sarebbero colpiti? Tanto più che l’Italia in questi lustri ha visto aumentare a dismisura il part time, specie quello involontario (chi vorrebbe lavorare a tempo pieno ed è invece costretto a lavorare part time, 1,5 milioni di persone secondo la Fondazione di Vittorio): un modo surretizio per le imprese di comprimere il costo del lavoro. L’Istat stima che in un decennio, rispetto al 2008, si siano perse 1,8 miliardi di ore lavorate: nei fatti, lavorare meno per lavorare tutti si è già inverato (ed è una tendenza destinata a intensificarsi)…

Nessuno meglio di un imprenditore o di chi dirige un’azienda può sapere quanti lavoratori siano necessari e quante ore di lavoro vadano suddivise al fine di soddisfare le esigenze del mercato; sostituirsi ad essi sarebbe solo l’ultima, perniciosa tentazione di uno “Stato Imprenditore” sempre più pervasivo.

 

2 comments

Aldo Mariconda - Venezia 19/05/2020 at 11:12

La miopia se non l’imbecillità – e mi scuso del termine perché non ho l’abitudine ad essere offensivo – sono diffuse specie in Italia. Ho letto un recente articolo di Angelo Panebianco il quale sosteneva come la mentalità anti-impresa sia diffusa nell’attuale maggioranza e tocchi oltre ai 5S parte del PD. E non solol aggiungo, ma anche parte della destra populista e sovranista.
Domanda: viviamo in un sistema chiuso, protetto da dogane come in tempi oramai remoti o in un mondo globalizzato? Siamo un Paese nel quale il costo del lavoro è tra i più alti per l’azienda, non a beneficio dei dipententi. Vogliamo accelerare il fenomeno delle delocalizzazioni e/o comunque della chiusura e perdita di altre aziente?
Questi “furbissimi” personaggi ricordano alla caduta del muro nel 1989 com’era la Germania Est? Miseria diffusa, Una battuta di allora: tutti facevano finta di lavorare e lo Stato faceva finta di pagarli! I prodotti disponibili erano di qualità infima. Una Trabant inquinava 10 volte una Golf, Una TV si rompeva frequentemente.
Io rispetto le opinini di tutti, ma su aquesto tema vi sono gli intelligenti – nel senso di intelligere, ossi capire . e i ciechi e sordi, per non dire insulsi e senza cervello!
E hanno il coraggio di sostenere certe tesi in un Paese in crisi, fermo da oltre 20 anni (prima del Covid-19), con un tasso d occupazione inferiore agli altri Paesi EU e una disoccupazione giovanile paurosa. Pensino invece a creare le premesse per lo sviluppo. Solo l’investimentio crea lavoro. Se avessimo un ambiente attrattivo la gente investirebbe di più da dentro e da fuori. E soffriamo di bassa produttività anche perché abbiamo troppe leggi, una burocrazia lenta e asdissiante, una giustizia che non funziona, tagli a scuola e univerità, e siamo un Paese dove Merito, Concorrenza e Mercato non sono troppo di casa.
Il comunismo è morto e sepolto. Solo lo sviluppo crea lavoro e benessere. Poi sta alla politica usarlo anche per re-inventare e rafforzare il welfare.

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Dario Greggio 19/05/2020 at 11:30

W olkswagen

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