Negli anni ’50 e ’60 molti Paesi africani, freschi d’indipendenza, si trovavano con standard socio-sanitari pericolosamente precari. La popolazione europea, memore della barbarie colonialista appena conclusa, intendeva aiutare concretamente gli stati in difficoltà ed esercitò una pressione importante sulle istituzioni, anche attraverso atti di solidarietà spontanea: fu proprio in quel periodo che nacquero le principali associazioni per lo sviluppo del terzo mondo.
Nel leggere dei tassi di mortalità, anche infantile, molto elevati l’impeto spinse a stanziare fondi considerevoli per la costruzione di grandi poli ospedalieri nelle capitali e cliniche attrezzate nelle periferie, si puntò tantissimo sul know-how tecnico e la formazione del personale sanitario locale e in pochi anni si costruirono infrastrutture inimmaginabili per il continente africano che presto iniziarono ad essere pienamente operative sotto la guida dei medici europei.
Fu triste riscontrare tuttavia che, nonostante i grandi sforzi fisici ed economici, la mortalità non accennava a diminuire considerevolmente come ci si sarebbe aspettati.
Solo anni dopo si sarebbe compreso il perché. Quegli enormi ospedali altro non erano che cattedrali nel deserto, al di fuori di qualsiasi rete di sanità pubblica. Ognuna di quelle strutture era un costosissimo tassello da inserire in un puzzle enorme che in Africa non era mai stato costruito.
Si iniziarono quindi a intraprendere misure di igiene pubblica su larga scala, cose che da noi erano scontate, ma che lì erano la chiave di volta, come ad esempio clorare l’acqua e costruire rete fognarie. Di per sé rendere l‘acqua potabile accessibile nelle grandi città fece crollare repentinamente i tassi di mortalità infantile. Furono interventi progettati su larga scala, ma relativamente rapidi e sostenibili dal punto di vista economico.
Oggi noi ci troviamo nella stessa situazione, eravamo convinti che gli standard occidentali di igiene e salute pubblica fossero sufficienti per evitare una pandemia nei paesi ricchi. Ci sbagliavamo.
E una volta che la marea ci aveva già travolto siamo corsi d’impeto a costruire una diga, l’ospedale, il centro di cura della malattia per eccellenza che però si è rivelato inadeguato senza una solida rete a tutela della salute pubblica a sostenerlo. Non parliamo certo di una rete idrica o fognaria, ma di una rete informatica in grado di tracciare i contatti e isolarli prima e di analizzare i flussi di big data dopo (come quella adoperata , tra le altre cose, anche da Singapore). Ci troviamo in una nuova era, quella in cui bisogna fare i conti con un mondo mai così popolato prima d’ora, che solo 100 anni fa contava 2 miliardi di persone contro i 7 attuali.
Ci siamo ostinati a voler inseguire il virus nella sua diffusione tra gli asintomatici, i ricoverati e i morti in terapia intensiva, senza provare a interpolare il suo comportamento nell’intera popolazione e prevederne l’evoluzione su larga scala, cosa che è stata fatta in altri Stati con risultati estremamente positivi (Germania e Corea del Sud giusto per citare due esempi).
Ci siamo intestarditi a fare la Corea del Nord invece, a bloccare tutto, a insistere sullo stare a casa invece che sul distanziamento sociale. A pubblicizzare un metro di distanza come sicuro quando l’unica distanza sicura è la più ampia possibile a prescindere dal contesto. Abbiamo ridotto gli orari di apertura dei supermercati aumentando la concentrazione dei clienti, ammassati in fila per ore dentro e fuori gli stessi. Abbiamo vietato le passeggiate a chilometri da qualsiasi altra persona spingendo la gente (ed in particolar modo la popolazione anziana) ad uscire per fare la spesa 3 o 4 volte a settimana in cerca di qualche minuto d’aria tra settimane di confinamento domiciliare.
Abbiamo fermato il lavoro in uffici open space, ma abbiamo continuato a far lavorare gli operai in fabbriche densamente popolate. Abbiamo scartato a priori qualsiasi forma di tracciamento, anche completamente anonima. E infine abbiamo ammassato i malati nei nosocomi, nei PS, nelle RSA, senza promuovere un diffuso protocollo di cura a livello territoriale e domiciliare. L’emblema di questa strategia è un ospedale da 21 milioni di euro che oggi ospita 3 (TRE) pazienti. Una cattedrale nel deserto. C’è chi dice che manca il personale per farlo funzionare, chi le attrezzature… La vera domanda è: quanti di questi morti non sarebbero nemmeno entrati in ospedale se avessimo agito meglio sulla popolazione generale?
Questi provvedimenti di natura sociale, che paiono slegati dalla pratica medica in senso stretto, dalla clinica, sono invece il pilastro della salute pubblica e non è un caso che in Lombardia, dove gli ospedali sono effettivamente un’eccellenza europea, il sistema sia collassato, perché fuori dai grandi poli ospedalieri, proprio come in Africa negli anni ’60, c’era il vuoto. E nonostante i progressi, c’è ancora.
Per questo anche se mi ero imposto di non postare nulla riguardo l’epidemia perché credevo che in questa fase difficile le critiche fossero più un ostacolo che altro, oggi mi sento di dover sottolineare che le strategie per il futuro sono ancora tutte da definire e dovranno essere presto definite per organizzare una graduale riapertura, dal momento che con questo virus dovremo convivere per tutto il 2020.
Nel frattempo di “italian model” non si è mai letto sulla stampa internazionale — non mancano invece le lodi per il modello Veneto. Nonostante le misure draconiane intraprese ormai 5 settimane fa siamo uno dei Paesi con il più alto numero di morti, in termini assoluti e rapportati alla popolazione. Mentre Norvegia, Danimarca, Repubblica Ceca e altri si apprestano a concludere le dinamiche misure di contenimento intraprese qualche settimana fa noi di strategie per la progressiva riapertura non ne abbiamo. E finché la salute pubblica sarà pensata solo dentro gli ospedali non ne avremo.
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[…] che indagasse la malattia fuori dagli ospedali e che trattasse preventivamente i malati. Già lo avevo scritto qui più di un mese fa denunciando come un’epidemia non potesse essere curata all’interno dei nosocomi e […]