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La lezione di Shinzo Abe

L’8 Luglio scorso è stato ucciso l’ex Premier giapponese Shinzo Abe in un attentato compiuto da un ex militare della marina nipponica. Abe è morto, ma la sua impronta sul Giappone e la lezione che possiamo trarre dalla sua parabola rimarranno.

Nella cronaca quotidiana sulla politica è facile sopravvalutare l’importanza di leader politici e capi di governo, presentarli come unici artefici delle dinamiche geopolitiche. In realtà i singoli leader non emergono casualmente né hanno la facoltà di plasmare la realtà a loro piacimento, nemmeno se dispongono di poteri formali illimitati. Le singole personalità sono i sintomi di fenomeni più profondi e agiscono in un contesto, quello della politica, in cui le opzioni perseguibili non sono illimitate. Un decisore politico non può prescindere dalla realtà in cui deve muoversi, che lo precede e che quindi pone dei vincoli al suo margine di azione. Chi non ne tiene conto si schianta.

La sopravvalutazione dell’importanza dei singoli leader causa molteplici fraintendimenti, soprattutto quando si tratta di analizzare la politica estera e gli equilibri tra gli Stati.

Paradossalmente, spesso non si riesce a riconoscere i veri grandi leader, quelli che riescono davvero a incidere sulla realtà in cui operano e potenzialmente ad influenzare il corso della storia. Il leggendario ex Segretario di Stato americano Henry Kissinger risulta al proposito illuminante. Nei suoi scritti più volte sottolinea che i singoli godono solo di un ristretto margine di azione nell’ambito dei vincoli posti dalla realtà, sostenendo che i grandi della storia operano sul limite esterno di quel margine. In quel caso incidono davvero sulla storia. Come sintetizzato da Edward Carr: «il grand’uomo è allo stesso tempo prodotto e agente del processo storico».

Shinzo Abe probabilmente rientrava in queste categorie. Era membro del partito liberaldemocratico giapponese. Ideologicamente con le categorie occidentali lo si potrebbe definire un nazionalista conservatore – di religione shintoista – legato all’associazione Nippon Kaigi. È stato il Capo di governo più longevo del suo Paese, prima nel 2006/07 e poi dal 2012 al 2020, quando si dimise per problemi di salute. In tale intervallo di tempo ha fortemente contribuito a far entrare il Giappone in una nuova fase storica.

Quando salì al potere la situazione giapponese non era affatto rosea: stagnazione economica da due decenni; ascesa della Cina (che rivendica la sovranità sulle isole giapponesi Senkaku) allo status di potenza anche dal punto di vista militare; crescenti incertezze sulla disponibilità americana nel garantire la sicurezza giapponese; senza dimenticare la minaccia nucleare nordcoreana.

In economia Abe cercò di intervenire tramite una politica di stimoli fiscali e monetari, oltre a puntare sul progresso tecnologico anche per compensare il declino demografico. Ma l’eredità più importante la lasciò in politica estera.

Di fronte alle esplicite mire egemoniche di Pechino, il Giappone non aveva alternative: tornare attivi sulla scena internazionale era diventato necessario. Il che conferma che trovarsi in una condizione spiacevole, cioè dinanzi ad un potenziale egemone ostile, può essere paradossalmente un vantaggio se uno Stato riesce a gestire adeguatamente la situazione. In poche parole, si è costretti a rimanere sul pezzo. Così è stato per il governo di Shinzo Abe, il quale guidava un Paese inattivo in politica estera dalla devastante sconfitta della seconda guerra mondiale; un Paese concentrato solo sul suo sviluppo economico e tecnologico, con risultati eccezionali a conferma della dinamicità della società nipponica; uno Stato la cui stessa costituzione all’articolo 9 vieta di agire militarmente.

Abe invece abbandonò di fatto la cosiddetta dottrina Yoshida (la base dell’atteggiamento pacifista del Giappone post ’45). Per affrontare l’inevitabile minaccia cinese nel teatro asiatico-pacifico Tokyo si è mossa su più direttrici: rafforzamento dell’alleanza con gli Stati Uniti, per i quali Pechino è l’unica sfidante che può scalfire l’egemonia americana sul mondo; maggior attivismo diplomatico per convogliare altri Stati della regione nel contenimento di Pechino; rafforzamento militare per avere una maggiore deterrenza nei confronti della Cina; maggiore proiezione economica in Estremo Oriente.

Per quanto riguarda il primo punto, il governo di Shinzo Abe ebbe sempre buoni rapporti con Washington. I due infatti hanno aumentato le esercitazioni militari congiunte nei mari contesi con Pechino. Così Abe, tenendo conto di un vincolo imprescindibile per il Giappone (l’essere parte della sfera di influenza americana dalla sconfitta del 45), ha sfruttato gli interessi comuni con gli USA, minimizzando i potenziali contrasti per innalzare l’affidabilità di Tokyo agli occhi americani e innalzando cosi anche lo status giapponese: da uno dei tanti Stati sotto l’ombrello americano (il quale è certamente un vincolo alla sovranità ma pure un formidabile scudo protettivo) a partner indispensabile per gli Stati Uniti in funzione anticinese. L’importanza dei suddetti rapporti è tale da far pensare ad alcuni di far entrare Tokyo nei Five Eyes; l’alleanza tra i servizi segreti di USA, Regno Unito, Australia, Canada e Nuova Zelanda (Paesi che sono affini culturalmente e che hanno interessi strategici praticamente identici).

Il sottinteso è che per l’establishment nipponico il rafforzamento dell’alleanza con gli Stati Uniti non è un fine in sé. Prima ancora che un vincolo esterno o uno scudo protettivo, in questa fase, per Tokyo il legame con Washington è il mezzo per aumentare lo status giapponese a livello internazionale e per bloccare la Cina. Davanti all’emersione dello scontro USA-Cina, soltanto con un’analisi molto superficiale poteva risultare conveniente cercare una posizione più neutrale. Per il Giappone si sarebbe trattato sicuramente di un suicidio. Pechino per diventare superpotenza deve necessariamente imporsi sul Mar Cinese Meridionale – come previsto già negli anni ’40 da Spykman, padre della Geopolitica moderna – e a tal fine deve conquistare Taiwan, il che permette di aprire la corsa cinese agli oceani e in ultima analisi di sfidare il dominio americano sulle vie di comunicazione marittime, dunque il primato americano sul mondo. Se la Cina controllasse il Mar Cinese Meridionale e lo stretto di Taiwan, controllerebbe i traffici commerciali da e per il Giappone, mettendo a rischio la sicurezza di quest’ultimo. Aggiungiamoci il fatto che Pechino considera le isole Senkaku come parte del suo territorio (isole Dyaoyutai) e che brama vendetta per ciò che i nipponici fecero alla Cina nella prima metà del secolo scorso. Di qui l’alleanza con gli Stati Uniti è perfettamente conforme agli interessi del Giappone almeno nel prossimo futuro.

Se la Cina dominasse la regione, il Giappone si ritroverebbe un egemone ostile alle porte di casa. Al contrario, l’iperpotenza americana non rappresenta una minaccia né per il Giappone né per nessun altro Stato della regione. Non essendo una Potenza residente in Asia, gli USA non hanno né interesse né le capacità di attuare politiche espansionistiche nell’area. Il grande vantaggio degli Stati Uniti, che ne ha accompagnato l’ascesa dal 1800, è proprio la loro posizione insulare grazie alla quale non vengono mediamente percepiti come una minaccia nel continente asiatico ed europeo, bensì sono utili come un ombrello protettivo nei confronti dei potenziali egemoni locali (come la Cina). Prevenire l’ascesa di egemoni regionali in Europa e Asia è esattamente l’obiettivo primario americano, funzionale al mantenimento del controllo dei mari e delle vie di comunicazione attraverso postazioni militari in luoghi strategici (i cosiddetti choke points) che a sua volta garantisce la libertà di navigazione dei mari.

Il controllo delle vie di comunicazione è vitale nel contenimento della Cina. Qui si apprezza al meglio la lungimiranza di Shinzo Abe, emersa già nel 2007. Da neo-Premier fece un discorso al parlamento indiano sostenendo l’importanza di mantenere “libere e aperte” le acque dove confluivano i due oceani Indiano e Pacifico, usando per la prima volta la dizione Indo-Pacifico nella sua accezione contemporanea. Abe voleva sottolineare l’importanza di prevenire il dominio cinese in quei mari.

Da quel momento in poi l’espressione indo-pacifico iniziò ad essere sempre più utilizzata. Prima nel libro bianco del 2013 del ministero della difesa australiano, poi dall’establishment strategico americano. Tant’è che dal 2018 Washington la usa come nome del Comando del Pentagono che si occupa dell’estremo oriente e del Pacifico (Indo-Pacific Command).

La lungimiranza del discorso del 2007 di Abe è certificata anche dalla principale coalizione allestita dagli USA in funzione anticinese: il Quad. Nacque ufficialmente sempre nel 2007, ma non decollò subito. Fu recuperata dagli americani nel 2017, quando la politica estera cinese era ormai esplicitamente assertiva. Ne fanno parte Stati Uniti, Australia, India (sempre a conferma della lungimiranza di Abe) e ovviamente il Giappone. Il fine primario del Quad è proprio quello di «mantenere liberi e aperti» i mari dell’Indo Pacifico, il che significa bloccare l’ascesa cinese grazie al controllo americano dei choke points da cui dipende l’economia cinese.

L’attivismo in funzione anticinese del Giappone è ben visibile anche nel campo economico. Fu Tokyo a mantenere in piedi il TPP dopo il ritiro degli USA del 2017 per volere di Trump. Sempre il Giappone è uno dei principali investitori negli Stati del sud-est asiatico. Anche in questo caso l’obiettivo è contenere Pechino dato che si tratta di Paesi facenti parte del progetto cinese delle nuove vie della seta. Alcuni sondaggi testimoniano come le società sud asiatiche vedano nel Giappone la potenza asiatica più affidabile (da notare che son gli stessi territori dove è ancora viva la memoria delle terrificanti politiche dell’Impero giapponese).

Tutto ciò sarebbe inutile senza un adeguato riarmo da parte del Giappone. Esattamente ciò che si è verificato col governo Abe che ha varato due unità portaelicotteri classe Izumo (la Izumo nel 2015 e la Kaga nel 2017), con la possibilità di convertirle in portaerei come testimoniato dai test con i caccia F-35B nel 2021.

Addirittura ultimamente l’establishment nipponico ha accarezzato l’idea di dotarsi di armi atomiche in codominio con gli USA, Shinzo Abe che non era più al governo ha sostenuto fortemente questa posizione. E il Giappone ha tutte le capacità per diventare potenza nucleare in poco tempo.

Inoltre, il governo Abe si è impegnato a riformare l’articolo 9 della costituzione giapponese che limita fortemente la proiezione militare nipponica. Al momento ciò non si è ancora verificato e anzi senza Abe il Giappone ha perso un’autorevole voce in merito.

Di sicuro il maggior protagonismo giapponese sulla scena internazionale cambia l’equazione di potenza nell’Indo-Pacifico, e non solo. Il Giappone è stato storicamente una vera bestia nera. Dopo la spedizione del Commodoro americano Perry del 1854 che costrinse il Giappone, contro la sua volontà, ad aprirsi al commercio con l’estero sfoggiando un’imponente superiorità tecnologica, i giapponesi capirono di dover rivoluzionarsi per sopravvivere. Appresero in trent’anni la tecnica occidentale, industrializzandosi e diventando una potenza militare pronta a imporsi in Asia, umiliando più volte la Cina in guerra (prendendo Taiwan in una di queste). Furono la prima potenza non europea a sconfiggere una potenza europea dopo svariati secoli, umiliando la Russia nella guerra del 1904-05. Già in quel momento il Presidente americano Theodore Roosevelt, con la lungimiranza dei grandi uomini della storia, preconizzò che la potenza nipponica avrebbe spaventato il mondo e minacciato gli USA nel Pacifico. Esattamente ciò che avvenne nella seconda guerra mondiale.

Diversi leader nipponici che avevano supportato la modernizzazione del Giappone alla fine del 1800 furono uccisi in attentati da tradizionalisti, ma alla fine riuscirono a cambiare il Giappone. Molto probabilmente ciò accadrà anche nel caso di Shinzo Abe. Abe è morto, ma il Giappone, pur con molti ostacoli come quello demografico, sembra voler rientrare nella storia, come testimoniato dalla volontà del governo di Tokyo di intervenire per difendere Taiwan in caso di invasione cinese.

La lezione di Shinzo Abe è dunque chiara. Uno Stato parte di una sfera di influenza altrui e che si trova in una regione che è diventata il teatro di una rivalità strategica tra il suo egemone di riferimento (gli Stati Uniti) e un aspirante egemone locale (la Cina), se si dimostra affidabile verso gli USA e volenteroso di prendersi delle responsabilità nella partita strategica, aumenta il proprio status. Mettendo l’enfasi sugli interessi strategici in comune e minimizzando il peso di quelli divergenti, il far parte di una sfera di influenza altrui risulta una formidabile risorsa per rafforzare il proprio Paese. Tutte le alleanze sono gerarchiche. C’è un egemone e una divisione dei lavori interna: chi si rende utile alla causa guadagna affidabilità e margine di azione per tutelare i propri interessi. Se lo fa in modo intelligente, la potenza di riferimento tollererà anche azioni da parte dello Stato “minore” non completamente compatibili con gli interessi della prima. Noi europei e italiani dovremmo capirlo, soprattutto in periodi di vuoti discorsi su presunti interessi opposti tra europei occidentali e americani, anche se poi non si specifica mai quali siano questi presunti interessi incompatibili.

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1 comment

Dario+Greggio 19/07/2022 at 21:40

Mi hai fatto pensare a come sia possibile che “i cinesi sono merda, fanno prodotti di merda, hanno un sistema sociopolitico di merda” ma TUTTI fanno affari con loro e/o ci parlano insieme! ;)

Degli esseri umani evoluti taglierebbero i ponti e li lascerebbero nel loro brodo. Ma, come sappiamo questo non succede nemmeno nelle comitive di “amici”…

poveri subumani di merda, quanto poco vi rimane.

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