L’incontro tra la Presidente di Taiwan Tsai Ing-wen e lo speaker della Camera statunitense Kevin McCarthy e le esercitazioni delle forze armate cinesi attorno all’isola di Taiwan sono i due avvenimenti che hanno rimesso la questione taiwanese al centro dell’attenzione.
I maggiori eventi geopolitici che hanno riguardato gli Stati Uniti e i suoi due maggiori rivali, la Russia e la Cina, nell’ultimo anno, cioè la Guerra in Ucraina e la crisi nello Stretto di Taiwan, hanno fatto emergere e hanno aggravato un dilemma che gli USA affrontano da almeno dieci anni con intensità crescente: come contenere la Cina nell‘Indo-Pacifico senza sguarnire gli altri teatri strategici? La domanda è sorta anche in Europa, dove gli americani hanno storicamente esercitato un’influenza politica che non ha eguali in altre regioni, grazie ad un’alleanza militare unica, con importanti diramazioni economiche e culturali, la NATO.
L’impegno sui fronti asiatico-pacifico e europeo-atlantico trova la sua origine nella grand strategy americana, il cui obiettivo storico è evitare che qualsiasi potenza regionale possa arrivare a imporre la propria supremazia nella propria regione di appartenenza, specie in Europa ed Estremo Oriente. Evitando così la realizzazione del peggior incubo geopolitico degli Stati Uniti: l’emersione di un rivale egemone nella massa eurasiatica. Nel contesto della politica estera americana questo obiettivo si declina nelle seguenti azioni:
1) contenere l’ascesa della Cina nell’Indo-Pacifico, e la sua influenza politica nel resto della massa eurasiatica, e fermare la Russia in Ucraina
2) mantenere in Europa e in Estremo Oriente i propri network di alleanze, che garantiscono la proiezione politica e militare necessaria per realizzare il suddetto contenimento e un notevole grado di egemonia, fondamentale per il mantenimento del primato internazionale americano
Negli ultimi anni il dilemma dell’impegno su più fronti per gli Stati Uniti si è progressivamente fatto più intricato. In Est Europa è diventato sempre più difficile gestire diplomaticamente le tensioni con la Russia riguardanti l’Ucraina. Quanto alla Cina, già molti anni fa divenne chiara l’inevitabile rivalità e la conseguente competizione strategica. Il mero potere conquistato da Pechino rappresentava una minaccia, a questa si aggiungeva l’esplicita ambizione cinese su Taiwan.
Nel 2022 il dilemma è scoppiato. Nel fronte europeo la scontro è diventato caldo ed in modo simile nello stretto di Taiwan le tensioni sono sempre maggiori. L’invasione russa dell’Ucraina, nella propaganda di Mosca, è un attacco all’Occidente o al ”mondo unipolare”. Si tratta di una narrazione di mera propaganda appunto, dato che la che la Russia sta bombardando gli ucraini e non gli occidentali, mossa che la esporrebbe a devastanti rappresaglie (tra l’altro, questa narrazione della guerra smentisce parzialmente quella degli ”occidentali anti-occidentali”, per i quali è l’Occidente ad aver iniziato la guerra per interposta ucraina. Alla fine, se la Russia ”fa la guerra all’Occidente tramite l’Ucraina” è giusto e sensato per l’Occidente rispondere). È tuttavia vero che, oltre ad una questione di valori, era pienamente nell’interesse strategico degli Stati NATO sostenere gli ucraini, bloccando così l’espansione della Russia sul continente europeo. Se la Russia avesse sconfitto rapidamente Kyiv, i Paesi dell’Europa orientale avrebbero subìto la pressione russa. Di conseguenza, era necessario per gli Stati Uniti ed i loro alleati armare l’Ucraina.
Proprio in seguito all’invasione russa dell’Ucraina emersero due sensazioni, tra loro collegate. La prima era che la Cina avrebbe potuto condurre la stessa azione a Taiwan. In realtà, in quel momento si trattava di uno scenario improbabile. Innanzitutto, per la Repubblica Popolare, soprattutto per il suo leader Xi Jinping, era un momento delicato, dato che doveva preparare il Congresso del Partito Comunista. Inoltre, la Cina non sembrava avere ancora le capacità per realizzare un’operazione militare simile, mentre tra qualche anno potrebbe ambire ad una posizione militarmente migliore. Ciononostante, se si guarda oltre l’immediato, è sicuramente vero che Pechino potrebbe attaccare Taiwan. Da qui la seconda idea, per cui il fronte in Ucraina e quello dello stretto di Taiwan sono strettamente collegati, se non interdipendenti. Da questo punto di vista, bisogna sostenere gli ucraini senza discussioni fino alla vittoria totale, che comporterebbe una sconfitta strategica anche per Pechino, oltre che per Mosca. In senso rovesciato: la sconfitta di Kyiv significherebbe la sconfitta dell’Occidente contro il – presunto – blocco russo-cinese. O peggio, implicherebbe la sconfitta dell’ideale di democrazia contro l‘autocrazia. Da tale prospettiva deriva l’idea per cui la vittoria totale dell’Ucraina sulla Russia sarebbe il miglior deterrente contro la Cina a Taiwan.
Non si tratta di una lettura totalmente sbagliata. Se la Russia avesse preso Kyiv in pochi giorni, senza problemi, se l’Occidente avesse mostrato le proprie divisioni senza essere in grado di reagire, se l’America non avesse dimostrato quanto ancora fosse in grado di guidare le proprie alleanze, la Cina sarebbe uscita imbaldanzita, pronta ad alzare il tiro nella sua regione e oltre. Ed è anche vero che la guerra in Ucraina ha spinto altri Stati minacciati da Pechino a valutare più probabile il rischio di guerra, riarmandosi e finendo quindi per complicare non di poco i piani espansionistici cinesi. Il caso del Giappone è emblematico.
Ma la questione è più complessa. Se c’è un nesso tra l’Ucraina e Taiwan o, più in generale, il contenimento della Cina, questo non può essere gestito sulla base di assunti scollegati dalla realtà politica.
Nello specifico, è sbagliato affermare che all’Occidente basti far vincere gli ucraini per fermare anche la Cina. È quindi sbagliata l’idea che solo una vittoria completa dell’Ucraina sulla Russia possa fungere da deterrenza verso la Cina. Vale anche il principio opposto. Per come stanno le cose oggi, non è vero che la mancata sconfitta totale della Russia in Ucraina, dopo che Mosca è stata efficacemente respinta da Kyiv grazie agli aiuti occidentali, sarebbe un lasciapassare per Pechino nello stretto di Taiwan. In sintesi, tra la guerra in Ucraina e le tensioni militari nello stretto di Taiwan il rapporto è più sfumato e ambiguo di come venga dipinto da una certa narrazione. Pur essendo due espressioni dell’attuale periodo di estrema competizione strategica, la vittoria in un teatro non implica la vittoria nell’altro per diversi motivi.
Innanzitutto, per quanto ci siano lezioni importanti dal caso ucraino che potrebbero essere utili a Taipei, la guerra nello stretto di Taiwan sarebbe aeronavale. In Ucraina, invece, la guerra è prevalentemente terrestre. In secondo luogo, sarebbe semplicistico e del tutto fuorviante considerare la Russia e la Cina come la stessa cosa. Mosca e Pechino sono diversissime, oltre che per storia e cultura civile, anche per cultura militare. Pensano diversamente alla guerra. I fallimenti militari russi in Ucraina da soli non possono essere un deterrente sufficiente per Pechino a Taiwan per la semplice ragione che la leadership cinese decide sulla base delle sue valutazioni sullo stato delle sue forze armate e della loro capacità di combattere e vincere una guerra nello stretto di Taiwan, non sulla base di come l’esercito di una potenza straniera ha combattuto in un altro tipo di guerra in cui la Cina non ha alcun ruolo diretto a livello militare. C’è poi un’altra ragione strettamente collegata a quella precedente: per prevenire un attacco cinese a Taiwan è decisivo l’equilibrio militare all’interno di quello stretto. E proprio quell’equilibrio si è spostato in senso più favorevole alla Cina negli ultimi anni (questo non significa che la Cina prevarrebbe in un ipotetico conflitto), dinamica che potrebbe accentuarsi nei prossimi anni. Alla luce di quanto detto finora, pensare di difendere Taiwan solamente vincendo in Ucraina è una valutazione viziata da una superficialità che si potrebbe rivelare fatale in un periodo di competizione come quello attuale.
Anzi, gli americani potrebbero arrivare a dover decidere se continuare gli aiuti a Kyiv con l’attuale intensità o se fornire armi a Taiwan per stare al passo con la sfida cinese. Se dovesse davvero porsi il dilemma tra cercare la vittoria totale di Kyiv e il sostegno a Taiwan, dovrà prevalere Taiwan. La vittoria totale di Kyiv è infatti estremamente difficile data la disparità di risorse tra gli ucraini e i russi. Questo non significa in alcun modo abbandonare gli ucraini. Ma significa che in caso di scelta si dovranno rispettare i limiti delle risorse a disposizione degli americani e il fatto che Taiwan è un teatro più rilevante, anche se sarà una scelta estremamente dolorosa.
Il sostegno a Taiwan è più importante per una serie di motivi. In primis per l’importanza tecnologica dell’isola. La Taiwan Manifacturing Seminductor Company domina la produzione dei semiconduttori più avanzati e bisogna fare di tutto per evitare che le sue industrie finiscano nelle mani della Cina. Inoltre, l’importanza di Taiwan è anche solo geo-strategica. Se Pechino la controllasse, spezzerebbe la cosiddetta prima catena di isole (che parte dal Giappone e arriva fino alle Filippine) all’interno della quale gli americani la contengono, avendo così accesso all’Oceano Pacifico, potrebbe dominare facilmente il Mar Cinese Meridionale e le rotte commerciali della regione, minacciando blocchi contro i suoi vicini. Inoltre, la Cina è più potente della Russia. Solo Pechino ha le potenzialità per mettere in crisi il primato degli Stati Uniti, innescandone il declino. Di conseguenza, paradossalmente, la priorità data a Taiwan sarebbe in una certa misura nell’interesse della stessa Ucraina. Se la Cina emergesse come vincitrice dell’odierna competizione internazionale mettendo in crisi gli Stati Uniti, il declino americano lascerebbe senza protezione l’Ucraina e gli europei (Italia compresa).
Gli Stati Uniti avranno il difficile compito di gestire una doppia competizione contro due temibili rivali – Cina e Russia – ai due estremi opposti della massa eurasiatica. Gestire entrambi i teatri, bilanciando giustamente le risorse, sarà una sfida complicata per Washington.
Negli ultimi mesi, negli Stati Uniti c’è stato un vivace dibattito proprio su questa faccenda tra due orientamenti. Una posizione finora non maggioritaria ma rampante è ben rappresentata da Elbridge Colby, ex alto funzionario del Pentagono ed ex uomo dell’intelligence, che è vicino all’ambiente Repubblicano. Colby sostiene che gli Stati Uniti stiano usando risorse utili a contenere Pechino in aiuti a Kyiv insostenibili per l’industria della difesa americana, la quale sta mostrando i propri limiti. Addirittura Colby, in modo in realtà un po’ semplicistico, divide l’establishment americano in due campi. Il primo, formato da chi vuole un supporto ”totale” a Kyiv, è l’establishment liberal a difesa del cosiddetto ”ordine internazionale basato sulle regole”. Un orientamento, questo, che si è già dimostrato fallimentare in diverse occasioni per Colby. Il secondo è quello di cui lo stesso Colby fa parte: i realisti, il cui modello deve essere Theodore Roosevelt per l’ex funzionario del Pentagono. I realisti sono coloro i quali, badando ai rapporti di forza, considerano la Cina la vera rivale. Secondo tale visione, l’America deve tutelare il proprio primato geopolitico rimanendo il soggetto più potente del mondo senza perdere tempo nella difesa ”dell’ordine basato sulle regole”. Di conseguenza, spetta agli europei sostenere l’Ucraina mentre gli Stati Uniti si concentreranno sulla Cina.
Secondo un’altra tesi, proprio per l’importanza che hanno gli alleati europei dell’America nella competizione economica e tecnologica con la Cina, gli Stati Uniti non possono che continuare a mettere risorse anche in Europa per minimizzare il rischio di perdere la propria influenza nel vecchio continente, per bloccare l’aggressività russa e anche perché gli alleati avranno bisogno dell’assistenza americana nella loro opera di riarmo. Questo in quanto l’influenza che gli Stati Uniti esercitano in Europa ha una profondità senza eguali altrove. Quindi va tutelata anche in quanto servirà per convogliare le risorse alleate nelle sfide contro Russia e Cina. Da questo punto di vista, come sostenuto da alcuni osservatori come il giovane storico Hal Brands, sarebbe sensato, secondo una strategia sequenziale, intensificare in questi mesi il sostegno all’Ucraina dato che qualora ci fosse una guerra per Taiwan, pure secondo le valutazioni peggiori, non dovrebbe scoppiare prima della metà del decennio. Ma i sostenitori della tesi opposta segnalano che gli Stati Uniti devono comunque iniziare a prepararsi ora. E devono correre.
Di sicuro ci sarà bisogno di grande lucidità in questa fase da parte degli Stati occidentali e soprattutto di realismo, inteso come capacità di comprendere i propri interessi strategici e i propri limiti. Nel caso dell’argomento di questo articolo significa riconoscere fin dove sarà possibile sostenere gli ucraini, viste le risorse diponibili e le possibilità di Kyiv di riprendere il proprio territorio. Nella consapevolezza che Pechino non si bloccherà se la Russia non raggiunge i suoi obiettivi. Non si tratta di tradimento verso la causa ucraina, date le molteplici sfide che dobbiamo affrontare è inevitabile non potersi focalizzare solo su di una. Sul fronte europeo, anche non partecipando direttamente, potremmo essere costretti a un risultato parziale ma decisivo: l’indipendenza del governo di Kyiv. Già questa rappresenta la sconfitta strategica, da un punto di vista geopolitico se non strettamente militare, della Russia. Come affermato da tempo da Kissinger, la Russia ha già perso in un certo senso. Anche se l’Ucraina non recupererà nell’immediato i suoi territori, cosa probabilmente fuori dalla nostra portata, rimarrà nella storia in quanto è stata in grado di tenere testa a una delle più grandi potenze mondiali. Un risultato del genere è già una vittoria, seppur dolorosa.
Tutto questo ci conduce alla dicotomia democrazie/autocrazie. Qualora una potenza autoritaria, o neo-totalitaria nel caso della Cina, dovesse diventare l’egemone internazionale, sicuramente la democrazia nella regione se la passerebbe molto male. Ma basare la politica estera solo su tale concetto fa perdere di vista la realtà politica. Questo ci spingerebbe ad allocare negativamente le risorse disponibili. Inoltre, potrebbe portare l’Occidente a una politica monolitica verso tutte le autocrazie, anche quelle che sebbene spregevoli non rappresentano una minaccia, spingendole verso Pechino. Si finirebbe così per rafforzare la Cina e indebolire le stesse democrazie. Al contrario, gli Stati Uniti e gli alleati dovrebbero essere selettivi e realistici. Sarebbe impossibile sfidare tutte le autocrazie allo stesso tempo, soprattutto in un momento dove, in vista di tensioni più forti, già Cina, Russia e Iran potrebbero coordinarsi di più tra di loro. Un maggior pragmatismo, poi, consentirebbe di affrontare meglio le crisi qualora scoppiassero, alzando anche i costi delle partnership tra i nostri rivali. D’altronde non è un segreto che l’attacco russo all’Ucraina non sia piaciuto alla Cina. A sua volta, il fatto che la Cina si sia presentata al Kazakhstan come una garanzia contro ipotetiche mire espansioniste russe sulla cospicua minoranza russofona del Paese centroasiatico non può certo far felice Mosca. Ci sono differenze tra i nostri rivali che dovrebbero essere sfruttate.
Ma a tale scopo serve realismo. Mentre una retorica sui diritti umani troppo rigida, pur se giusta, potrebbe avere effetti controproducenti, come l’avvicinamento tra sauditi e cinesi, che comunque può aumentare l’influenza internazionale cinese in una regione dove oggi è comunque contenuta.
All’inizio di quest’anno è circolato nella stampa americana un memorandum del Generale dell’aeronautica Mike Minihan indirizzato alle truppe sotto il suo comando. Il Generale Minihan sosteneva nel memo che una guerra con la Cina fosse possibile già nel 2025, in quanto Pechino potrebbe agire subito dopo le elezioni taiwanesi e quelle americane del 2024, usando queste parole: «Spero di sbagliarmi. Il mio istinto mi dice che combatteremo nel 2025» aggiungendo di prepararsi a «mirare alla testa». Nella fase in cui ci troviamo ora serve questa mentalità, dettata da un rischio con questo senso di urgenza. Solo dopo si avrà la forza per pensare alla giustizia internazionale.