Parlare di Charlie Hebdo in questo momento è un po’ come entrare in campo sul 5-0, dopo che nella tua squadra hanno segnato tutti, dal difensore alla punta, e tu vieni buttato nella mischia per fare numero, senza dover per forza dimostrare qualcosa al pubblico.
Come previsto dai terroristi, che di mestiere fanno proprio questo, il tremendo attentato ha scatenato tra le reazioni più varie, arrivando a formare fazioni di popolo che non sembravano aspettare altro che schierarsi.
Il via l’hanno preso gli estremisti-populisti (e buttateci dentro altri aggettivi che finiscono in –isti, perché rendono meglio sui titoli) con i vari «Islam da combattere», «ma quale multicultura», «immigrazione controllata» e via dicendo. I giornali hanno amplificato la questione parlando di «web che inveisce contro l’Islam», roba che basterebbe guardare la propria homepage su Facebook dopo una partita della Juventus per cambiare radicalmente idea.
La parte istituzionale degli utenti-spettatori ha invece cercato di divincolarsi tra i due ruoli concessi loro dalla situazione: placare gli animi delle destre radicali contro l’immigrazione di massa e lanciare moniti di cordoglio misti a speranza tipici dell’occasione, da«oggi la libertà ha subito un duro colpo», a «non confondiamo il terrorismo con la religione».
Pace a tutti.
Un’altra categoria che sta raccogliendo consensi è quella degli alternativi. Si celano dietro i classici «ma dei massacri in Africa non parla mai nessuno?», o «ci dimentichiamo sempre dei palestinesi sotto le bombe degli israeliani!». Che sono un po’ quelli che quando muore un vip pubblicano la foto di un bimbo sofferente in qualche paese del Terzo Mondo chiedendosi come mai si parla di Amy Winehouse («che si drogava»), e non di milioni di bambini in difficoltà.
Il meccanismo mediatico, in questi casi, non è che uno splendido sconosciuto. Il fatto che i media parlino di un media che è stato attaccato proprio non va giù. Eppure è la cosa più normale del mondo: se a casa mia entrano dei ladri, a tavola e coi miei familiari parlerò dei danni che hanno fatto da noi e non dei furti che ogni giorno vengono commessi a Città del Messico.
Meritevoli di attenzione, comunque, anche le tesi complottiste. L’aumento di dvd e documentari su Youtube, in relazione a presunte cospirazioni alla radice di attentati terroristici, ha fatto impennare visualizzazioni e condivisioni dall’11 settembre in poi.
Era una tesi perfetta, quasi cinematografica. Gli Usa finanziano Al Qaeda e fanno cadere le Torri Gemelle per avere l’oggettivo pretesto di dichiarare guerra all’Iraq, e in maniera un po’ più generica all’Islam.
Certo è che se gli attentati di New York qualche dubbio l’avevano anche destato, le autorità francesi stanno al momento cercando di capire se il commando di Parigi abbia effettivamente agito in solitaria. Sette arresti fino ad ora e intelligence di tutto il mondo al lavoro per recuperare, come è effettivamente successo, i due killer poi deceduti, uno dei quali avrebbe sbadatamente dimenticato la carta d’identità nell’ultima delle auto usate per la strage.
Insomma, la curva degli ultras dell’opinione pubblica sembra pronta ad una nuova sfida, che è cominciata sui social network e che si concluderà a future urne, quando anche il nuovo flusso politico di risposta all’emergenza sarà ricostruito.
Nel frattempo pochi, se non pochissimi, si sono soffermati su una riflessione un tantino più sommaria.
Nel 2015, in un mondo figlio della globalizzazione economica e politica, dei flussi intangibili, delle politiche di melting pot diventate salad bowl, di comunicazione istantanea e di legami che vanno oltre i confini geografici, una vignetta può ancora uccidere.
E lo fa anche rispettando le leggi, osservando attenzione ai confini di libertà imposti da dichiarazioni di diritti alquanto longeve e, per quanto sembri assurdo, semplicemente seguendo la propria etica lavorativa.
Anche in un clima di guerra, proprio come questo. Una guerra che esiste davvero, che sarà anche combattuta da pochi esaltati, ma che è chiacchierata da tanti, troppi, forse tutti, e con toni che poco aiutano la riconciliazione e il dialogo.
Non sono il Papa, né Obama o l’ONU, eppure non pare tanto difficile capire come la forzata ghettizzazione sociale, il fardello della distintività e l’egemonia storica esasperata dell’Occidente abbia giocato un ruolo decisivo nell’inasprimento delle posizioni dei due schieramenti.
Un mondo che vende libertà ma che poi ha paura che circoli. Che regala i mezzi per subire una guerra quando bastava condividere le proprie idee per evitarla.
Perché l’odio nasce dalla convinzione estrema che esista un determinismo biologico e culturale alla base della competizione tra popoli, e il continuo sbandieramento di tali credenze (da ambo le parti) altro non fa che alzare i muri che dividono l’Occidente dal Medioriente.
La speranza è quella di arrivare a condividere un progresso di idee, e non solo di strumenti, altrimenti sarà impossibile far arrivare alla nostra coscienza collettiva il principio che il fondamentalismo religioso abbia ormai un significato arcaico e che si debba confrontare coi dovuti filtri del Nuovo Millennio.
Il macabro risultato, in caso contrario, sarebbe quello di questi giorni. Un paradosso tipico di queste barbarie, che usano concetti millenari accostandoli a mezzi tecnologici ultramoderni, acquistati proprio da quel mondo che avrebbe rovinato gli stessi valori che i fondamentalisti si prefiggono di difendere.
Perché la fede non ha logica, dicono.
E questo dovrebbero saperlo anche il Papa, Obama e l’ONU.
6 comments
Il nostro peccato originale, padre degli eventi di questi giorni, è il principio di uguaglinza, figlio dell’illuminismo, reinterpretato dal marxismo.
Bene, io, al contrario affermo : siamo tutti diversi, e per fortuna. La DIVERSITA’ è ciò che rende il pianeta una meraviglia DIVINA. La diversità è quella che stimola la curiosità e la creatività.
Ma come ogni medaglia ha il suo rovescio : i leoni mangiano le gazzelle, diverse da loro.
La diversità è fonte di conflitto, e va governata.
Il tentativo di azzerarla mescolando tra loro i diversi, sia sul piano della frammistione sociale che su quello della globalizzazione economica, è il modo migliore per esasperarla.
Il mondo islamico aveva un suo fascino per un occidentale, e viceversa. Tutto perduto.
Non trovo affascinante circolare per le strade, andare sui mezzi pubblici e sentir parlare ogni lingua tranne la mia. Straniero a casa mia. Non mi sento a mio agio.
Straniero a casa d’altri : sono curioso.
Vale anche per loro : stranieri, ma non turisti, a casa d’altri. Disagio, isolamento, chisura, emarginazione, quindi alla fine conflitto, nessun altro sbocco.
Esiste un modo per metterci una pezza ? Io credo di si, e non si chiama integrazione, ma valorizzazione culturale, enfatizzazione delle diversità per trasformare la diffidenza in curiosità, la distanza culturale in stimolo alla reciproca scoperta. Percorso lungo e difficile.
Ma c’è qualcuno che voglia percorrerlo ?
Credo che nel mare magnum di concetti che fanno da contorno all’integrazione sia proprio la valorizzazione culturale ad emergere con forza.
Il problema sta nel fatto che ambedue le “fazioni” di popolo immerse in questa diatriba abbiano intrinseca l’esigenza di dimostrare a livelli esasperati cosa sia meglio per l’altro, quando invece un mondo che ormai dovrebbe essere secolarizzato e volto al progresso non ne sente alcun bisogno.
La curiosità verrebbe alimentata scorgendo, nelle varie culture (soprattutto antiche) un animo quasi folkloristico. Il guaio è che l’esistenza forzata di teocrazia nelle nostre società spinge diverse frange di popolazione a concepire il fondamentalismo come unica via per la giustizia sociale e per il raggiungimento dei dovuti fini morali.
Proprio qui io auspico un progresso delle idee, una condivisione di principi secondo i quali la forza di una nazione dovrebbe essere concentrata su un’etica laica, che magari condivide tanti ideali con quella religiosa, ma che non ne è la copia esatta.
Non a caso la Bibbia rimane la Bibbia e la Costituzione rimane la Costituzione.
Mescolare testi antichi di migliaia di anni e leggi ancora vigenti non è valorizzare una cultura, bensì infamare anni di ricerca e progresso.
Ed è qui che bisogna intervenire, perché è qui che ci siamo dati poco da fare, ghettizzando il diverso e non condividendo principi che, per il bene e la pace nel mondo, dovrebbero essere universali.
Al di la del (comprensibile e scontato) teatrino mediatico scatenato dalla vicenda, il dettaglio che più mi ha fatto riflettere è mentanta che in prima serata dice che il personaggio “aveva detto su youtube che voleva morire come martire” ma nonostante ciò non è stato fatto nulla: che è un po’ come dire che dovevano metterlo via prima. Perchè fa riflettere questo fatto: perchè di fronte agli atti di terrorismo, ci scopriamo tutti meno affezionati allo stato di diritto. Diciamo: persone che in tempi normali non ammetterebbero mai delle “eccezioni” ai picincipi cardine di uno stato democratico e liberale (primo tra tutti il principio del giusto processo, la presunzione di innocenza ecc), si scoprono d un tratto sostenitori di quel modus operandi che ammette l’azione “illegale” dello stato (in stile extraodinary rendition). Non biasimo certo questo approccio, ma attenzione: rendiamoci conto almeno di quanto è facile “pilotare” le nostre emozioni e portarci a rinunciare al garantismo!
Verissimo, Nicola.
Quando la paura sale iniziamo a sentirci tutti minacciati e la lucidità della quale ci serviamo nelle situazioni che osserviamo dall’esterno finisce a mescolarsi con l’irrazionalità del momento.
Ciao Antonio! Bellissimo articolo, hai perfettamente ragione. Certo, provocatoriamente dico che potevi sbilanciarti un po’ di più ;) ma non sempre un articolo serve per prendere posizione.
Se vuoi la mia opinione, eccola qui.
Je suis Charlie http://scimmiettaivy.blogspot.com/2015/01/je-suis-charlie.html
Ciao!
Silvia
Ciao Silvia,
grazie per i complimenti.
Effettivamente il tuo grido di rabbia è un tantino più deciso e provocatorio, mentre qui volevo, semplicemente, constatate le varie “fazioni in campo” e i loro credo, stimolare una riflessione che possa apparire in qualche modo sovrapartitica.
Sacrosanto (per rimanere in tema) anche ciò che dici: la provocazione può portare grossi rischi, e tutto andrebbe soppesato. Ma è anche vero che nel 2015 abbiamo tutti gli strumenti per indignarci tramite la legge e non per forza impugnando un fucile. Che è ciò che auspico (il ricorso ai tribunali ovviamente) come principio universale.
Un abbraccio