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Esteri

La Germania tra Scilla e Cariddi

Domenica scorsa i tedeschi hanno votato e c’è già chi parla di terremoto politico. Sì, questa tornata elettorale è stata per certi versi traumatizzante, le novità ed i cambiamenti sono stati tanti. Ma la Germania è un paese che non ama troppo i grandi stravolgimenti: ce la farà ad uscire dall’impasse politico nel quale è precipitata negli ultimi giorni?

L’estrema destra è, per la prima volta dal dopoguerra, ritornata in parlamento. Ho letto molte analisi che correlano il dignitosissimo 13% conquistato da Alternative für Deutschland al rifiuto della politica solidale sull’immigrazione attuata da Angela Merkel. Ma tale chiave di lettura, seppur in parte vera e riscontrabile nei fatti, è troppo semplicistica. È facile vedere, ad esempio, come l’estrema destra abbia fatto bottino di consensi in zone dove la quantità di rifugiati e di migranti è minima, e dove quindi non si è presentato un vero e proprio disagio — se non mediatico — causato dall’ondata migratoria. È il caso della Sassonia, unico Land dove l’AfD è risultato primo partito: solo il 3,9% della popolazione della piccola regione orientale è composta da immigrati, contro una media nazionale del 10,5%.

Un’altra ragione del peculiare quanto inaspettato successo dell’estrema destra risiede, a mio avviso, nella svolta che essi hanno impresso alla rigida ed educata politica teutonica. Mai prima d’ora un partito aveva distrutto così sistematicamente dei veri e propri tabù da settant’anni a questa parte dominanti nel dibattito nazionale. Personalmente, sono sempre rimasto sorpreso dalla solerzia tramandata di generazione in generazione dai tedeschi nel sentire ancora attuale una colpa sepolta e putrefatta ormai da tempo. In Germania la memoria non è solo commemorazione o monito, ma regola tutt’ora i discorsi pubblici e privati.

Solo qualche mese fa, ad esempio, un parlamentare di spicco del partito definì il monumento in ricordo delle vittime della Shoah nel pieno centro di Berlino “una vergogna per il popolo tedesco”. Mai prima d’ora nessuno si era spinto tanto in là. E ancora: solo poche settimane dopo il candidato alla cancelleria Alexander Gauland criticava la società tedesca di aver negato un’adeguata commemorazione ai tanti coraggiosi soldati tedeschi morti per la patria durante la seconda guerra mondiale. Come dimenticandosi che l’esercito tedesco all’epoca si chiamava Wehrmacht e che a condurlo non vi era un semplice generale dalle tendenze un po’ conservatrici, ma uno dei dittatori più sanguinari della storia mondiale. Tutti questi ammiccamenti non rendono l’AfD un redivivo partito nazista, per carità! Si tratta di un movimento assolutamente democratico. Ma come tanti altri negli ultimi tempi in Europa, si è servito di una retorica nostalgica che ha convinto quelle tante teste rasate — presenti soprattutto all’Est — che ne hanno indubbiamente accresciuto il successo elettorale.

Va anche detto che l’estrema destra non ha convinto solo molti conservatori: quasi un milione di voti è infatti arrivato e dai socialdemocratici e dai nostalgici postcomunisti della Linke. Analizzando i risultati elettorali di quest’ultimo partito — l’unico altro movimento estremista agente nella politica tedesca ­— si può subito vedere come esso abbia drasticamente perso terreno all’Est in favore dell’AfD. La parte orientale del paese, seppur ormai abbia raggiunto livelli macroeconomici vicini al ricco Ovest, è ancora intrisa della cosiddetta Ostalgie, uno strano impasto di sentimenti tra i quali figurano la nostalgia per i “tempi d’oro” del blocco di Varsavia ed un certo senso di orgoglioso risentimento nei confronti della politica federale, da sempre accusata di essere più vicina agli interessi occidentali. Oltre a ciò, fa bene Enrico Mentana a ricordare come sia ovvio che movimenti estremisti trovino terreno più fertile in quelle zone dove la democrazia non è ancora trentenne. Là dove la popolazione si è passivamente abituata a vivere sotto il regime, che fosse quello nazionalsocialista prima o quello comunista poi, percepisce in maniera meno spaventata le tendenze antidemocratiche che l’estrema destra così come l’estrema sinistra portano silenziosamente avanti. Hitler è quindi tornato? No, ma mai prima d’ora i movimenti radicali avevano occupato così tanto spazio nel Reichstag: e questo deve indubbiamente preoccupare.

Detto ciò, la cancelliera ha vinto di nuovo. Non bene come i sondaggi lasciavano presagire, ma è comunque arrivata prima: un terzo dei tedeschi l’ha riscelta per guidare il paese. Lei si mostra impassibile come sempre; la Krisenkanzlerin, d’altronde, è abituata a fronteggiare tutto e tutti. Ma essa sa bene che questo sarà il suo mandato più difficile: la Germania e l’Europa hanno bisogno di scelte e prese di posizione radicali. Dietro di sé, non avrà più né una stabilissima maggioranza né la forza di cui un primo ministro dispone dopo un vero e proprio bagno di folla. Causa il successo della destrissima AfD e la tenuta della sinistrissima Linke, infatti, le uniche coalizioni con cui la Merkel può governare sono due: la sempreverde Große Koalition o la cosiddetta Jamaika, mai sperimentata prima a livello federale, composta dalla sua Union insieme a liberali e verdi.

Per quanto riguarda i socialdemocratici dell’SPD, essi hanno già escluso un qualsiasi incarico di governo. Reduci dalla più grande batosta della loro storia, sono usciti cornuti e mazziati dalla tornata elettorale con un misero 21%: sentono il bisogno di ripartire da zero, di ritrovare quei valori che da sempre hanno garantito loro il voto delle fasce sociali più deboli — oramai stabilmente nelle mani dei populisti. D’altro canto anche l’Union della cancelliera è intenta a leccarsi le ferite e in tanti nel partito sentono che la Merkel dovrà lasciare il posto, chissà se a fine legislatura o anzitempo, ad un giovane più conservatore e polarizzante di lei.

Il futuro è quindi più incerto che mai. Liberali e verdi hanno posizioni molto distanti su tanti, troppi punti, e forse solo una stratega del compromesso come la cancelliera può riuscire a trovare una quadra; ma la stabilità senza sé e senza ma è ormai un lontano ricordo. Il pericolo che l’establishment politico venga sempre più visto come un magma unico senza distinzioni cromatiche al suo interno non fa altro che spingere la popolazione verso gli estremi del panorama partitico. E nessuno ha l’interesse che la locomotiva d’Europa perda la forza e l’equilibrio con cui ha condotto il continente negli ultimi tempi: né i tedeschi, né, tantomeno, gli europei.

La Merkel è l’unica ancora di salvezza, ma si trova nella stessa posizione del povero Ulisse. Convinta che una riedizione della grande coalizione le garantirebbe meno veti incrociati ed un governo più stabile, finirà per lanciarsi nel pericolante patto a tre. Se riuscirà a farcela, nessuno può saperlo. A noi non rimane altro che sperare che riesca a mantenere salda la sua posizione.

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