Recentemente la banca per i regolamenti internazionali ha pubblicato un articolo che potrebbe rivalutare, in parte, la politica monetaria in ragione
a svalutazioni ed esportazioni.
La tesi di fondo riguarda la catena del valore. Quando la catena del valore è ampia, ci saranno moltissimi scambi commerciali internazionali creando interconnessioni. Più è ampia e più questi scambi hanno bisogno di tempo e di credito concesso dalle banche (si pensi alle rimanenze, inventari, componenti e semilavorati acquistati da altre imprese estere).
La valuta comunemente usata negli scambi commerciali internazionali è il dollaro, poiché circa l’83% del commercio internazionale è scambiato in dollari americani. Quindi, le banche che usano il canale all’ingrosso (forniscono cioè servizi a grandi clienti e/o organizzazioni, come le società di finanziamento internazionale) concederanno, alle imprese, crediti in dollari.
La variazione del tasso di cambio sul dollaro può comportare una diminuzione – o un aumento – della disponibilità di finanziamenti in dollari, limitando – o accrescendo – il soddisfacimento richiesto dai clienti per le proprie esigenze di finanziamento commerciale internazionale. Questo perché ad un apprezzamento della valuta segue un aumento dei tassi di interesse (e viceversa) che riduce l’offerta di moneta.
Nel paper in questione, gli autori assumono due imprese identiche esportatrici dello stesso bene,
nello stesso arco temporale e verso lo stesso paese.
Inoltre, le due imprese sono finanziate da due diverse banche, una che utilizza molto il canale del credito in dollari mentre l’altra meno. I risultati sono abbastanza ovvi: l’impresa che si finanzia mediante la banca maggiormente influenzata dal dollaro (e dalla sua fluttuazione: apprezzamento o deprezzamento) avrà ripercussioni sui finanziamenti futuri che dovrebbero essere investiti negli scambi all’interno della catena del valore, nonché sulle esportazioni. Cioè, se il dollaro si apprezza, i tassi di interesse aumentano, e le imprese avranno più difficoltà ad ottenere il finanziamento richiesto per gli scambi all’interno della catena del valore.
Dunque, nel nostro esempio, i vantaggi reali legati all’apprezzamento del dollaro, per i paesi esteri esportatori che vedranno migliorare il proprio conto corrente, grazie alla svalutazione della loro moneta nei confronti del dollaro, e quindi ad una maggiore competitività che si traduce in maggiore esportazioni, potrebbero essere controbilanciati se gli esportatori stessi saranno, in qualche modo, influenzati dai canali di credito del paese che ha apprezzato la moneta, quindi influenzati dagli USA. In altri termini, le imprese esportatrici non avranno questo vantaggio competitivo legato alla svalutazione della propria moneta, rispetto il dollaro, se finanziate in dollari o essendo all’interno del canale di credito in dollari.
Questo è un concetto fondamentale, poiché, una delle tesi dei “sovranisti” riguarda proprio il
controllo sul cambio della valuta nazionale. Gli stessi sostengono che una politica di apprezzamento o svalutazione della propria moneta potrebbe avere vantaggi legati alle esportazioni. Il che sarebbe vero negli anni passati, a patto che la condizione Marshall-Lerner sia maggiore a 1 (il vantaggio delle esportazioni legato ad una diminuzione del prezzo delle merci in uscita deve essere maggiore all’aumento dei prezzi in entrata, quindi la somma in valore assoluto delle elasticità di prezzo delle esportazioni e delle importazioni deve essere maggiore di 1) e considerando anche l’effetto J. Inoltre, andrebbe considerata anche la svalutazione dei salari legata alla svalutazione della moneta, ma questo è un altro discorso.
Dunque, in un mondo globalizzato con una catena del valore estesa per l’intero globo, è corretto pensare di attuare politiche passate che non hanno, in certi casi, evidenza empirica?