Bomba atomica, escalation militare, scenari apocalittici; recentemente dalla Russia arrivano ancora segnali che spingono l’opinione pubblica a preoccuparsi di tutto questo. Spesso ci si dimentica di ciò che è accaduto (o meglio, non accaduto) durante la Guerra Fredda, quando la contrapposizione ideologica globale ha raggiunto livelli a dir poco terrificanti. Se oggi gli antagonismi fra mondo occidentale, medio-oriente, Cina e Russia sono marcati, assolutamente da non sottovalutare, questo contrasto non è sfociato in una minaccia credibile di annientamento reciproco, come avvenne dal secondo dopoguerra fino alla caduta dell’URSS. Se tutto questo potrebbe in parte rincuorare, dall’altra parte sorge il dubbio che la situazione politica internazionale attuale possa degenerare.
Possiamo quindi parlare oggi di un crescente rischio che si verifichi un attacco nucleare dopo l’invasione russa in Ucraina?
Porsi questa domanda, però, implica tornare indietro nel tempo. Occorre comprendere come la bomba atomica si inseriva in un modus operandi militare consolidato e, infine, come abbia impattato gli equilibri mondiali.
L’utilizzo massiccio di ordigni nucleari comporterebbe la realizzazione concreta di una cosiddetta Mutual Assured Destruction, ironicamente posta in acronimo come MAD per esaltare il carattere irrazionale di chi avesse provato ad agire in questo modo. Basterebbe già questo a chiarire tutti i nostri dubbi: la razionalità spinge a evitare uno scenario al quale letteratura e cinema ci hanno abituato a immaginare.
Ma se la volontà di rimanere in vita può essere una buona motivazione razionale, come dobbiamo ragionare se chi ha la possibilità di schiacciare i famosi bottoni è guidato dalla pazzia?
Usciamo un momento dalla struttura generale per calarci nella realtà e chiedercelo schiettamente: Putin può essere così pazzo? La possibilità remota sussiste sempre, pur rimanendo molto improbabile. Il rischio zero nel mondo (lo abbiamo imparato forse un po’ tutti con la pandemia) non esiste.
Si sa che il comando in Russia è saldamente nelle mani di una sola persona, il Presidente. Tuttavia, il sistema ereditato da Putin è in gran parte quello di Eltsin, in cui esisteva un sistema clientelare basato sulla «politica di ridondanza istituzionale»: si gestiva il potere attraverso «la moltiplicazione di centri d’analisi, dipartimenti, comitati, volti a fornire consulenze e informazioni su specifiche materie», i quali avevano «ampi spazi di manovra […], in assenza di chiare linee di responsabilità di comando, e una varietà di canali attraverso i quali controllare le azioni del capo del governo»[1].
Questa struttura è stata modificata da Putin, il quale la ha formalizzata accentrando il potere su persone a lui vicine, come personale militare e dell’intelligence, nonché, indirettamente, anche i famosi oligarchi. Il Presidente sembra aver piena fiducia nelle figure da lui cooptate e alle quali garantisce privilegi, creando una situazione in cui le decisioni sono molto lontane dall’essere definite trasparenti. La cerchia formatasi intorno a Putin, tuttavia, dovrebbe farci riflettere su un fatto: nella remota possibilità in cui la pazzia prendesse il sopravvento, forse essa non dovrebbe colpire solo una persona, ma, appunto, la maggior parte di coloro che gli sono accanto. Quindi, pensandoci bene, diminuirebbe la probabilità di un evento catastrofico.
Certo, una prevedibile quanto giusta obiezione potrebbe essere: “contro la pazzia non esiste alcuna ragione”; così ritorniamo al rischio zero e all’impossibilità di eliminare questo scenario. Esistono però, oltre alle considerazioni esposte, soprattutto delle ragioni pragmatiche, che hanno un peso notevole, se non determinante, ed entrano in gioco quando si decide di utilizzare una bomba nucleare.
Con la seconda guerra mondiale i danni causati all’ambiente urbano, naturale e alle vie di trasporto furono enormi. Qualche numero può rendere l’idea. I danni provocati agli edifici fecero aumentare il numero di sfollati e senzatetto, stimati in 25 milioni in URSS e 20 milioni in Germania; nell’Est Europa la situazione fu ancor più catastrofica con 70 mila villaggi e 1700 città distrutte in URSS, mentre il costo delle vite umane totale nella guerra si aggirava intorno a 36,5 milioni[2].
Una guerra del genere ci ha posto davanti una cruda realtà: la distruzione in guerra è normalizzata, anche se dovesse raggiungere dei livelli moralmente raccapriccianti. Perciò se la distruzione totale viene evitata, ciò non può accadere prioritariamente perché fa paura o risulta immorale, ma per il fatto che sarebbe un’azione insensata e cioè che non porterebbe ad alcun risultato “politico”. Se partiamo dalle fasi finali del secondo conflitto mondiale, per poi soffermarci ai primi anni della Guerra Fredda, possiamo capire meglio questo concetto.
L’unica potenza ad aver mai impiegato la bomba atomica è quella statunitense (agosto del 1945 in Giappone) quando, sia per evitare che Stalin avesse un vantaggio (intimidendolo), sia per porre fine al più presto al conflitto, mostrò per la prima volta gli effetti di un’arma così letale[3]. In tale circostanza si utilizzò la bomba atomica, una volta progettata e testata la sua funzionalità, come se fosse identica ad una qualsiasi altra arma in grado di far ottenere uno specifico vantaggio sul campo militare. Finito il conflitto mondiale, nel 1946 si provò a far gestire ad un ente internazionale come l’ONU la proliferazione delle armi nucleari, ma il piano fallì e tutto restò in mano alle singole potenze. Gli Stati che avevano a disposizione la bomba nucleare si trovavano ora nella condizione in cui potenzialmente erano votati sempre di più alla “desertificazione” reciproca.
Infatti nel 1949 anche l’URSS ebbe la sua bomba atomica (il Regno Unito nel 1952, la Francia nel 1960) e la potenza distruttrice aumentò esponenzialmente con la bomba ad idrogeno in mano agli USA dal 1952 e all’URSS dal 1955[4]. Nel frattempo il National Security Council, nel settembre del 1948, formalizzò in un documento (NSC 30) che le bombe nucleari erano pienamente utilizzabili per difendere gli interessi nazionali. Successivamente, nel 1949, il Joint Chiefs of Staff (JCS) statunitense promosse uno studio per capire l’efficacia di tali armi in un ipotetico conflitto su scala mondiale.
Cosa si prospettava? Una situazione simile al 1942-43: le armi nucleari sarebbero state in grado di distruggere almeno settanta città sovietiche, ma non avrebbero garantito alcuna vittoria che, invece, sarebbe stata rimandata ad un confronto fra forze convenzionali (cioè senza l’uso di armi nucleari). La vittoria sul suolo europeo sarebbe andata all’URSS, costringendo le altre potenze alleate solamente ad avere come basi operative la Gran Bretagna e il Nord Africa per tentare in futuro di sottrarre ai sovietici i territori europei.[5]
Insomma, si riconosce che il nucleare potrebbe non essere risolutivo nemmeno in una situazione di superiorità statunitense, mentre con la diffusione del nucleare fra i sovietici il problema si acuisce. Il numero delle testate aumenterà nel corso degli anni ’50, come anche la loro potenza e la capacità di usarle su lunghe distanze grazie ai missili balistici intercontinentali (ICBM), rendendo chiaro come il loro impiego non sia più utile.
Ma utile a cosa?
La risposta la si evince da un episodio avvenuto durante la guerra di Corea (1950-1953) che vide protagonisti il presidente Truman da una parte, e il generale statunitense MacArthur dall’altra. La campagna bellica rischiava di concludersi con un’invasione massiccia di cinesi e nordcoreani nel Sud e ciò avrebbe portato ad una catastrofe militare per gli USA. MacArthur, come comandante in capo, potendo scegliere di impiegare ogni forza a disposizione per volgere la guerra a suo favore, era pronto a far sganciare le bombe atomiche, senza alcuna esitazione. La catena di comando che stava influendo sulla decisione quindi era esclusivamente militare. Così la paura che ciò potesse avverarsi fece agire immediatamente il PM inglese Clement Attlee, che il 4 dicembre 1950 volò verso Washington per avere dei chiarimenti. Truman rassicurò tutti: categoricamente vietò l’uso del nucleare e nel 1951 il generale venne sostituito[6].
Da quel momento si era sancito che utilizzare o meno un’arma come la bomba atomica fosse esclusivamente una prerogativa politica. Infatti il nucleare avrebbe certamente avuto la sua efficacia militare ma non quella politica: l’azione militare è intrinsecamente legata ad alcuni obiettivi che possano determinare una situazione di vantaggio sul breve-medio termine, come ad esempio l’acquisizione di alcuni territori, l’approvvigionamento di alcune risorse, il riconoscimento pubblico di un certo status, un miglioramento delle condizioni di vita per la propria popolazione, la diffusione di alcuni valori culturali ecc. Quindi obiettivi politici che verrebbero minacciati invece da una guerra totale.
Le finalità politiche fungono insomma da “freno” alla capacità distruttiva della guerra e per questo motivo, dopo i fatti accaduti in Corea, giudicare sull’impiego della bomba atomica sarebbe stato appannaggio della sola classe dirigente politica. Se per un militare come il generale MacArthur infatti interessava solo vincere la guerra, per un politico un intervento del genere avrebbe altresì aperto un conflitto mondiale, peggiorato le relazioni internazionali, fatto perdere importanti privilegi economici o forse aperto un conflitto sociale interno.
Truman, da quel momento, darà forma alla politica atomica statunitense rispettando ciò che affermava più di un secolo prima Karl von Clausewitz, ovvero che «la guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi […] Il disegno politico è lo scopo, la guerra è il mezzo per raggiungerlo, e un mezzo senza scopo non può essere concepito»[7].
Questo vuol dire che la guerra ha un preciso obiettivo, serve la politica, non può essere pensata come fine a sé stessa, intesa come distruzione caotica e insensata. Sebbene vi fosse una logica consolidata dalle guerre passate in cui un’arma più distruttiva delle precedenti andasse impiegata automaticamente in un conflitto, ora con la bomba atomica si entrava in contraddizione con l’essenza della guerra stessa.
Ovviamente questo non voleva dire che le armi nucleari non sarebbero mai state usate, ad esempio, in una situazione di difesa. Al contrario: proprio la deterrenza esercitata psicologicamente durante tutta la Guerra Fredda ha reso consapevole, chiunque avesse avuto in mente di iniziare un conflitto nucleare, che la politica sarebbe morta.
Un episodio emblematico che avvenne poco più tardi, nel 1958, vide l’Unione Sovietica aumentare proprio la tensione psicologica e dimostrare questa tesi. Dopo il tentativo fallito da Stalin nel 1948, si ritentò una conquista di Berlino, sfruttando il vantaggio numerico dell’Armata Rossa e lanciando un ultimatum. In questo modo si forzavano gli USA a rispondere ad un dilemma.
Gli statunitensi erano disposti ad iniziare una guerra nucleare per conservare i “privilegi” ottenuti su Berlino?
Qualcuno potrebbe pensare che la miglior soluzione fosse quella di lasciare alla svelta Berlino ai sovietici, ma è così solo fino a quando non si comprende che quel rompicapo poteva tranquillamente essere rispedito al mittente.
L’URSS, infatti, era pronta a sua volta ad iniziare una guerra nucleare per vedere la fine di quei “privilegi”?[8]
L’ultimatum di sei mesi terminò così senza alcuna risposta occidentale, non portando ad alcun risultato o cambiamento, ma confermando solo la necessità di mantenere lo status quo. Stesso epilogo avrà l’iniziativa del 1961 che sentenzierà il famoso innalzamento del Muro fra Berlino Est ed Ovest, una soluzione per far cessare l’emigrazione verso occidente che prosciugava l’Est di lavoratori qualificati.
Ritornando alla nostra domanda iniziale, ecco allora che la probabilità di un’escalation nucleare si abbassa sempre di più se per un momento pensiamo, con la logica di Clausewitz, a quali risvolti politici porterebbe un impiego del nucleare nel conflitto in corso. Putin non avrebbe più nulla e non otterrebbe nulla, dal momento che è ben cosciente come la risposta occidentale ad uno scenario nucleare, ripetuta più volte, sarebbe risoluta ed intransigente. Le varie minacce sull’utilizzo di una bomba atomica tendono, queste sì, ad avere invece un chiaro intento politico. Quello di fare leva psicologicamente sull’opinione pubblica occidentale affinché vengano meno gli aiuti alle forze armate ucraine e i russi possano trasformare i rapporti di forza militari in appaganti conquiste politiche.
[1] M. Morini, La Russia di Putin, Il Mulino, Bologna, 2020, Ebook, cap. 1, par. 2.
[2] T. Judt, Postwar, The Penguin Press, New York, 2005, p. 17.
[3] M. P. Leffler e O. A. Westad, The Cambridge History of the Cold War. Volume I
Origins, Cambridge University Press, Cambridge, 2010, p. 376.
[4] Ivi, p. 383.
[5] Ivi, p. 378.
[6] J. L. Gaddis, La Guerra fredda: cinquanta anni di paura e di speranza, Mondadori, Milano, 2007, p. 58.
[7] Cit. in ivi, p. 60.
[8] M. P. Leffler e O. A. Westad, The Cambridge History of the Cold War. Volume I
Origins, op. cit., p. 392.